Intervista a Enzo
Moscato |
A cura di Nicolantonio Napoli
Moscato è alle prese con numerosi progetti. Il più imminente è la
messa in scena de La Ronda degli Ammoniti chiestagli da Ruggero
Cappuccio per il Napoli Teatro Festival 2019. Per il nostro incontro
gli ho detto che avrei avuto piacere di fare con lui una lunga
chiacchierata informale sul suo lavoro e sulla sua vita e sulla scia
di altri nostri incontri, riprendere da una precedente intervista di
qualche anno fa (era il maggio 1994 e aveva appena finito la
traduzione dell’Ubu Re per Ronconi), per riannodare i fili dei suoi
primi 40 anni in teatro, in una sorta di piano sequenza che
raccoglie i dialoghi davanti a un caffè, le chiacchierate sciolte e
informali, le interviste vere e proprie.
E sa che avrei poi sistemato tutto il materiale per produrre una
sola intervista dal filo conduttore unico. Talvolta ho aggiornato un
pensiero, una posizione, intrecciando l’oggi col passato, altre
volte ho mantenendo la datazione di alcune dichiarazioni, perché non
è mutato il pensiero nonostante gli anni passati o perché
rappresentano un documento straordinario di passione e verità.
Ci sediamo nel dehor di un bar situato sulla parallela di quella
arteria magica che è via Toledo insieme al suo fidato amico manager
Claudio Affinito.
La nostra è una ‘conoscenza’ di lunga data,
cominciata sul finire degli anni ottanta grazie a Francesco
Silvestri, rapsodica nel tempo, per cui le nostre chiacchierate
iniziano in lentezza con un approccio timidamente formale per poi
sconfinare con scioltezza, come sempre, in argomenti e temi cari a
tutti e due: schegge di un unico universo ritornante che è Napoli.
La finalità del nostro incontro è duplice; l’intervista e
l’organizzazione del cartellone della rassegna Scenari pagani che
curo per Casa Babylon da ventiquattro anni, che ha già ospitato Enzo
molte volte, lo ha premiato nel 1998 con Spiritilli e lavora per
riaverlo in scena nella prossima stagione artistica con un inno al
suo Ritornanti, nonostante Enzo lamenti una gamba ammaccata e
qualche altro fastidioso acciacco, sirene di un corpo stupido che
non si muove in sintonia con lo spirito.
D - Che rapporto hai con le foto? Perché
ne ho qui una tua che conosci bene, sulla quale vorrei una tua
opinione.
R - Bellissima. Io, Annibale, Taiuti e
Orlando. Tanto tempo fa. Io le foto non le guardo volentieri… però
succede a volte di rivederti attraverso la fotografia…
È una
fotografia dolce e terribile insieme. Perché, mentre ridesta l’aura
degli affetti, costituisce una testimonianza probante dell’autentico
abisso scavatosi fra la Napoli di allora, in cui c’era il teatro
(intendo il teatro vero, che cercava di aprirsi nuove strade al di
là di una tradizione ormai sterile e contro l’opportunismo
consumistico), e la Napoli di oggi, in cui, al posto del teatro di
allora, c’è la riscoperta del conformismo nel solco dei vecchi e mai
dimenticati compromessi.
Qualcuno fa un lavoro su di te e ci
mette diciamo la foto di oggi come quella di 30, 40 anni fa. Adesso
non ci soffro, non sono più un giovinetto. Io sono stato giovinetto
per quanto riguarda la mia tenuta fisica per oltre 40 anni e ho
avuto la fortuna di avere questo fisico adolescenziale per parecchi
anni. L’altra sera ero a Ischia film festival e rispondevo alle
domande dell’intervistatore e ho visto allo specchio alle sue spalle
questa persona anziana che parlava e che ero io. Non ci devi pensare
troppo. Io che faccio teatro, e quando dico teatro dico che faccio
solo quello, si… ho fatto anche cinema, televisione, ma niente di
cosi completo e totalizzante come il teatro che ti cattura, da
quando l’ho fatto per la prima volta ricordo che facevo personaggi
che non avevano la mia età anagrafica, erano molto più anziani e
allora ti dici… di che mi preoccupo… ho fatto Annina di Festa al
celeste e nubile santuario nell’84 che almeno sulla carta aveva i
suoi 50 anni e oltre e io ne avevo molti di meno e quindi è tutto un
fatto relativo. Il teatro è bello per questo, si consuma mentre lo
fai.
Poi certo, si possono fare delle riprese dei lavori
cinematografici che però io non vedo mai. Non li vedo perché c’è
questa sorta di risucchio che puoi avere ingannevolmente perché poi
un personaggio è sempre tutto interiore che io rendo molto
attraverso la lingua non attraverso il corpo.
La lingua che sta
a metà strada tra la mente e la somaticità. Il teatro è bello per
questo perché non ti fa vedere ma ti fa immaginare. Mentre tu reciti
ti puoi immaginare mentre tu fai quella cosa e puoi avere una sorta
di auto fascinazione oppure puoi rifiutarti, non amarti. Io l’auto
fascinazione non l’ho mai avuta, sono stato sempre molto critico
rispetto a quello che facevo.
D - E rispetto alla scrittura?
R - Quello è
diverso… perché quella la controllo di più. Io la scrittura non la
abbandono mai. Anche se faccio un testo che ha 30 - 40 anni in
realtà sulla scrittura io ci sono sempre contemporaneamente sopra,
la aggiorno con l’occhio dell’oggi, la mantengo giovane. Ma fino a
un certo punto, perché è una alchimia… se scritta colla forma
grammaticale di allora non la puoi cambiare, è un testimone.
Cosa
che non puoi fare col corpo.
D - La tua scrittura è molto
moderna, è una continua invenzione, e se posso essere frivolo, non
risente della tua età.
R - Si… e siccome io ho la mania
dell’auto correzione, dell’auto aggiornamento la chiudo qua dentro
perché certe cose vanno lasciate antiche, magari è sul contemporaneo
che devi fare più correzione. Ma è una cosa che ti viene dal teatro,
è una questione di tempi estremamente complessi che si incastrano
nel teatro, più lavori col teatro più ti rendi conto che certe cose
si incastrano per i tempi. I tempi e le sonorità che sono veramente
tue…
D - E allora mi chiedo e ti chiedo: ma un testo di Moscato
chi altri lo può recitare all’infuori di te stesso? Il tuo teatro è
lingua, è corpo che è difficile vedere in altri.
R - Ci sono
esempi, pensa ad Artaud. L’ho letto come tanti e l’ho visto in
video, i documenti, le testimonianze filmiche che abbiamo che ci
sono tramandati e lì il discorso è complicato perché tu non ti trovi
di fronte ad una figura professionale semplice … tu hai un autore,
un attore, un inventore del teatro hai un uomo che soffre
mentalmente o che dicono soffra mentalmente per cui l’immediata
congiuntura è con la psichiatria con l’etnopsichiatria, con
l’antropologia.
Ho letto cose nuove anche recentemente, che
diciamo non hanno una gran forza. Ho l’impressione che oggi rispetto
a noi c’è meno desiderio di rottura, c’è meno desiderio di rompere e
di ricostruire. Rispetto alla tradizione noi abbiamo avuto un
momento di rottura, poi ci siamo riaccostati e l’abbiamo ricostruita
alla luce delle esperienze del contemporaneo, quindi in noi è
presente la tradizione, ma nel senso del tradimento necessario che
ci vuole rispetto a ciò che ti ha preceduto.
Quello che invece
io vedo o leggo adesso è una scrittura molto meno impegnativa dal
punto di vista della dimensione che tu puoi attraversare, la
scrittura che artaudianamente non rischia; il concetto di rischio,
di hazard, è presente in Artaud, il teatro stesso per Artaud è un
grande rischio anche se in una maniera molto composita che bisogna
capire, però, ecco, ho l’impressione che tra noi e questa maniera
contemporanea di scrittura che ha del conservatorismo, c’è una
differenza.
Ci troviamo di fronte a un fenomeno cosmico, e
diciamo che in piccolo e molto umilmente il problema in me si
pone…perché per esempio una delle cose che per molti anni mi è
pesata e ora non mi pesa più è stata la dimensione Napoli. Cioè io,
Enzo Moscato e Napoli siamo la stessa cosa. Dimensione Napoli. Se la
intendi come cosmo e sempre in divenire, da cui si può partire
ritornare andare, Napoli cosmo si. Napoli città metropolitana, no.
Perché è da tempo che io ho cominciato a coniugare le lingue in modo
sincronico, francese, inglese, napoletano; ecco quindi che non sono
più tanto classificabile come un autore locale ed è più complicato
per quelle figure che sono contemporaneamente più cose.. non magari
per velleità loro ma per una forza di destinalità… sono destinati ad
essere multipli…
D - Ma questa molteplicità, senza di te,
senza la tua voce, la tua presenza, senza quelle lingue, rischia di
essere poco espressa e rappresentata.
R - Questo non sta a me
giudicarlo… io certo sono un generoso… quando me li chiedono, i miei
testi, le mie cose le do. Alcune cose non le ho date unicamente
perché ci vivo… per esempio Compleanno me l’hanno chiesto tante
volte ma non posso darlo… io ci vivo con Compleanno, da tantissimi
anni ci vivo …dall’86 lo faccio.
D - Compleanno… dedicato a
Annibale.
R - Sì, è tutto dedicato a lui e ti spiego anche
perché. All’epoca Annibale mi chiese se volevo interpretare il
personaggio di Anna in Le 5 rose di Jennifer, ma io insegnavo e non
potevo andare in tournée così gli dissi di no. Poi ovviamente ho
dovuto fare una scelta, tra l’insegnamento e il teatro. Alla fine ho
scelto il teatro. Ora, finalmente, posso rendere il giusto omaggio
ad Annibale.
D - Sono più di trent’anni da Compleanno cosa è
cambiato e cosa è rimasto uguale?
R - Non so…Io mi vedo
sempre lo stesso… dovrebbero magari dirlo gli spettatori che ti
hanno visto negli anni. Dentro di te c’è una sorta di eternità
perpetua, un senso di ‘Non Tempo’. Io non avverto grandi differenze
dall’86 ad oggi. Anzi più avverto la senescenza più ritorno bambino.
Il consiglio che posso dare è quello di leggere, di leggere tanto.
E’ il modo per andare incontro a se stressi. Io come vengo
fuori…innanzi tutto come scrittore… incontrando le scritture
altrui…ma non quelle presenti… ma dei padri nobili che ci hanno
preceduti. Il presente noi siamo condannati a non capirlo…il passato
ci può aiutare a comprendere qualche minimo brandello di nostra
vita, in tutti i sensi, storico, politico, letterario… ora è inutile
citare il nome di qualche classico non è questo il senso di quello
che sto dicendo …ma per dire… il Faust di Goethe o di Mann io li
ri-leggerei, mi prenderei il rischio, che hanno ancora tanto da
trasmetterci, c’è qualcosa che ci deve arrivare ancora. Le
discipline sceniche si imparano, sono tecniche, quello che invece è
estremamente personale è il pensiero che tu ti devi formare intorno
a quella cosa e che deve essere il più possibile tuo originale.
Non so che cosa sia cambiato in questi anni nel mio teatro e nel
pensiero che ho su di esso. Forse nulla. Forse tutto, chi lo sa?
Dall’interno di un processo, come capita a me di stare, se si parla
di teatro, non si è sempre molto avvertiti in relazione al
cambiamento. Si ha molta coscienza, invece, di ciò che si aggiunge
al già fatto. Senza dubbio, in questi anni, il pensiero e il teatro
nella mia ricerca sono divenuti più complessi, stratificati, non
facilmente riducibili a una sola dimensione o interpretazione. Anche
più elusivi, sfuggenti, incatturabili, rispetto al senso. Questo lo
ritengo un dato positivo, vista la tendenza odierna a racchiudere in
comode e false sigle – in prigionie concettuali – il problematico
ventaglio espressivo di un fenomeno scenico o di un artista.
D - Compleanno è molto stratificato. E’ la celebrazione dell’assenza
e del delirio, un esercizio quotidiano del dolore, della perdita. Ma
anche una festa per ricordare le affinità elettive e i teneri
ricordi che ti legano a Annibale.
R - Lì c’è contaminazione,
ci sono odio e amore… non è che ogni volta che mi chiedono di fare
Compleanno io esco pazzo dalla gioia, soprattutto adesso che c’ho 72
anni sul groppone. Però è talmente esemplificativo, talmente
emblematico di te di quello che hai fatto, di come la pensi che non
puoi sottrarti. Altre cose mie se le possono pigliare. Tanto è vero
che si sono presi anche il mio testo archetipo, Scannasurice, e
glielo dato.
D - Magari con un po’ di ritrosia e di
resistenza.
R - Esatto. Ma magari così ci si ricorderà del
mio esordio.
D - Che rapporto avevi con Annibale Ruccello?
Dimmi qualcosa non hai mai detto a nessuno.
R - Tante cose
non ho detto a nessuno e credo che non le dirò. Ogni tanto quasi
involontariamente me ne scappa qualcuna, non una cosa proprio
indicibile, ma poi mi ritraggo. Ad Annibale pensavo pochi giorni fa.
Ormai sono più di 30 anni della sua morte, si sono moltiplicati i
premi in suo nome le ricorrenze e non mi piace, ma so già che
bisognerà andarci e faranno le solite cose che hanno fatto negli
ultimi anni.
Oltretutto queste non sono cose che dico solo a te e
non dico in giro, anzi è un po’ di tempo che rischio di passare per
un oppositore della scrittura di Annibale, però ho avuto
l'impressione, come spesso succede, che la morte, soprattutto quel
tipo di morte, finisce per rendere mass-mediale tutta la situazione,
fumettistica.
C'è gente che si cura di lui e invece non sa
neanche dove Annibale stia di casa.
D - Fumettistico? Non sei
eccessivamente duro?
R - No. Ti dirò, non ho visto in giro
cose ... come dire ... lo ho visto le cose che ha fatto Annibale,
che erano cose straordinarie compreso Ferdinando che mi lasciò senza
fiato; un ragazzo di appena trent'anni che metteva su quel testo, in
quella maniera, con quelle attrici! Neanche la ripresa che se ne
fece ad essere sincero mi ha convinto. Ben che mai mi hanno convinto
il film e le altre messe in scena che in questi anni si sono
moltiplicate. Dico che non ho visto ancora una sua cosa messa in
scena da altri che abbia avuto la forza e la dirompenza delle stesse
operazioni fatte da Annibale.
Mi danno fastidio quelli che si
ammantano di professionalità, di professionismo, per cui mi lascia
un po' sconcertato il fatto che con facilità mettono in scena
qualunque cosa.
A maggior ragione mi lascia un po' sconcertato il
fatto che con facilità si mettono in scena i testi di Annibale, o i
miei. Ho visto in giro molto pressappochismo e soprattutto molto non
conoscere questa persona.
Ci sono autori che dal punto di vista
filosofico non si limitano all’atto drammaturgico, ma rimandano
sempre a qualche altra cosa, a un interrogativo, a un fondamento, si
dice in filosofia. E questo l’abbiamo fatto noi giovani autori degli
anni ’80. Abbiamo cercato, e anche Ruccello lo ha cercato, qualche
cosa che fosse al di là del mero atto di scrittura, anche
collegandoci alla nostra formazione, e anche Ruccello veniva da un
suo specifico, da una formazione antropologica e filosofica. Da noi
non ci si poteva aspettare la scansione drammaturgica tradizionale,
ma l’atto teatrale che, come dice Artaud, deve essere qualche altra
cosa. Che dovrebbe essere il punto fermo per salvarlo
dall’estinzione, perché oramai, il teatro non ospita più il teatro
ma altre cose. Io detesto parlare del teatro come un atto scenico
punto e basta. Il teatro serve come un trampolino per qualcos’altro.
Sennò rimaniamo nell’ambito di una disciplina, di un artigianato che
tutti possono apprendere bene o male, ma non è di rottura per
nessuno. Noi invece parliamo di trasformazione. È un altro discorso.
D - Io conobbi Annibale nell'85, al Crasc. Lì faceva il
"professore".
R - Si. Mi ricordo che insegnava lì. Abbiamo
fatto delle cose insieme al Crasc anni prima. Poi abbiamo fatto
insieme Ragazze sole con qualche esperienza, lo facemmo nell’85, al
teatro Ausonia con la regia di Mario Santella. Questo testo in
particolare non mi vedrà più in scena senza di lui.
Poi facemmo
una cosa che si chiamava Metropoli Tatuata, in avversione al termine
‘Nuova Drammaturgia’ che ci era stato un po’ cucito addosso e che
non ci piaceva, una sorta di manifesto per il nostro lavoro che
ospitava anche Orlando, Taiuti e altri, in cui io recitavo delle
cose mie e lui le sue, e a un certo punto c'è un incontro scenico
molto bello; dove io avevo un vestito da sposa bianco e con il quale
restavo tutto il tempo.
Il vestito veniva da Festa al celeste e
nubile santuario, dove facevo Annina e dove il secondo tempo è tutto
in abito bianco; lui faceva un monologo tremendo, la parte della
madre di Notturno di donna con ospiti e io ero sua figlia. Era una
cosa agghiacciante da vedere, per il coraggio, per la "doppia
fregatura" della cosa.
Ma tu mi hai chiesto Annibale com'era.
Resto sempre rispetto alle cose di Annibale con una parola non
detta, con un atteggiamento non preso, anche se sono uno che si è
posizionato molto rispetto ad Annibale. Ho sempre detto che la sua
breve e intensa scrittura doveva essere presa in considerazione e
doveva avere una catalogazione critica e teatrografica molto chiara.
E scoprire la persona.
D - Ma come si fa a scoprire la
persona Annibale nel profondo, se poi amici come te hanno difficoltà
a raccontarlo?
R - lo sono in una posizione estremamente
imbarazzante; tra l'altro ne ho parlato anche con Francesco
Silvestri, il quale prima di me, molto prima di me, lo ha
conosciuto, c'ha lavorato, ha curato per lungo periodo Jennifer, ma
sicuramente in una situazione non paritaria, mentre con me lo era.
Ma lui lo conosceva comunque molto bene. Io posso dire che con
Annibale non ho mai litigato; non sono facile al litigio, ma neanche
al contrario. Però penso che le cose che abbiamo fatto, le cose che
ci siamo detti, le cose che abbiamo sentito, sono nate su qualcosa
che non ti saprei spiegare.
A me è successo che lui aveva fatto
Le cinque rose.... e nello stesso anno io ho fatto il mio primo
testo che non ho mai recitato a Napoli e che si chiama Carcioffolà.
D - Prima, facendo riferimento al tuo debutto, hai ricordato
Scannasurice, e mi era sembrato un po’ strano che tu lo citassi come
tuo esordio, quando invece, io ricordavo fosse appunto Carcioffolà.
R - Si. Carcioffolà l’ho fatto prima di Scannasurice. Era
l’inverno dell’80… ed è stato il mio primo approccio professionale
col teatro, ma in realtà io insegnavo ancora, e ho insegnato storia
e filosofia per altri 8 anni, poi mi sono liberato e sono diventato
teatrante, per cui…. Io Carcioffolà l’ho recitato al Convento
Occupato a Roma e mi pare feci anche delle repliche estive… non
ricordo… è passato tanto tempo… e lo scrissi su fogli volanti,
perché non pensavo che poi….
Io ho sempre avuto la velleità di
essere scrittore veramente e questa cosa col tempo forse l’ho
raggiunta, ma all’inizio io non ero così presuntuoso da pensare che
potessi diventare un bravo scrittore di teatro.
Lo scrissi su
questi fogli volanti e lo interpretai insieme a un amico mio, Piero
Carosiello, che è morto da tanti anni, morì suicida purtroppo nello
stesso anno di Carcioffolà, una cara creatura, e non l’ho mai più
fatto, né ho mai più pensato, proprio per questo trauma che avevo
avuto, di passarlo dalla mera carta volante a quella forma che
faccio adesso.
D - Allora esiste?! Ne ho sentito parlare
come di un testo scomparso, introvabile.
R - Esiste innanzi
tutto perché è stato fatto scenicamente… era organizzato in tre
situazioni sceniche. La prima era una sceneggiata, la seconda era un
monologo che facevo io, la terza un'altra sceneggiata tra me e
Annibale messa insieme un po’ frettolosamente…erano i primi tempi
ero alle prime armi… ma abbastanza importante per capire questo
autore che si affacciava e che veniva fuori un po’ sulla tradizione
e che era però anche innovazione. L’ho lasciato su questi fogli
protocollo che aspetta ancora di essere, come dire, riversato.
D - Come una bobina.
R - Si.. in una forma ufficiale…lo
tengo come sabbia mobile… Poi c’è da chiedersi perché di tutti i
testi miei solo questo… io ormai protocollo tutto… anche il respiro
che faccio, perché a teatro è così… non è vero che il teatro è
spontaneità… lo è solo quando tu lo pensi, tu lo calcoli, tu lo
mediti, lo scrivi, lo inchiodi, e poi ti puoi permettere di essere
spontaneo, quindi non è vero. Però ecco.. c’è da chiedersi perché di
tutti i testi miei solo questo io non l’ho rubricato come scrittura.
Avevo bisogno di questo non muro all’inizio del mio percorso
artistico di questa sabbia mobile.
Ufficialmente io nasco con
Scannasurice… e tutte le mie biografie sono scritte con
quell’inizio, da quelli che sono i miei libri e il mio percorso a
teatro… compreso questo ultimo mio libro a cui tengo moltissimo che
si chiama Il Mare non si mangia edito da Guida… e dunque non l’ho
rubricato ancora … forse perché scrivendolo ne farei un'altra cosa…
invece io voglio che resti quello che è stato, se lo scrivo c’è
l’Enzo di oggi, la mano di Enzo di oggi che chiaramente è uno che
tiene 40 anni di teatro in testa. Lo falsificherei
D –
D’accordo. Ma primo o poi dovrai pensare di archiviare anche questo
tuo testo per una completezza, per un compimento di tutto il tuo
percorso che deve esser fatto.
R - Per il momento tengo
questa zona mobile davanti a me. Io comincio dalla palude.
Scannasurice, Trianon, Signurì Signurì, Festa al celeste e nubile
santuario … poi da allora in poi io c’ho tutta la costellazione di
testi… certo qualcuno è stato più curato qualche altro meno e ti
dico perché, perché a un certo punto mi hanno chiesto delle sillogi…
per esempio la Ubu libri fin quanto è esistita con Franco Quadri mi
ha chiesto delle raccolte… e io ho fatto per loro la Quadrilogia di
Santarcangelo, Orfani veleni, l’Angelico bestiario, Occhi gettati.
Poi morto Franco la cosa si è persa e purtroppo abbiamo perso
una grande casa editrice di teatro… allora lì ho dovuto pensare per
il libro quindi per una forma permanente di scrittura, che cosa era
stata per me la mobilità di quella esperienza lì di teatro che
abbraccia 4 decenni. E qui ci sarebbe da fare un discorso
sull’editoria teatrale…ma transeat.
D – Riavvolgiamo. Mi
dicevi di Annibale
R - Tutti e due, abbiamo lavorato insieme
a Roma al Teatro Occupato, un convento occupato che proveniva
direttamente dall'Avanguardia.
Eravamo in due camere diverse,
credo due spazi vicini e non ci siamo mai incontrati. Io chiedevo di
lui e lui di me. Due napoletani a Roma; ci siamo incontrati quando
io ho fatto Scannasurice allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello.
Io ero assolutamente sconosciuto per il teatro napoletano. Sono
piombato proprio dal nulla perché facevo l'insegnante di filosofia.
Una sera mi trovai a casa di una mia amica semiologa che lavorava
all'Università di Salerno, la professoressa Putino, molto
appassionata delle cose che scrivevo. Mi chiese di recitare una
parte di questo monologo misterico che è Scannasurice, quella sera
si trovò con noi Umberto Serra allora critico del quotidiano «Il
Mattino», il quale disse: senti, questo testo deve essere
assolutamente messo in scena. Io domani parto con l'organizzartelo.
Io venivo da una serie di delusioni compresa quella del Teatro
Nuovo. Lì ero stato portato per mano da Antonio Neiwiller, che
credeva molto nella mia scrittura. Facemmo vedere uno spezzone dello
spettacolo, ma non lo vollero e questa è una cosa che rimane a
memoria d'uomo e che rimprovero sempre ad Angelo Montella e Iginia
Di Napoli, che erano gli organizzatori del Teatro Nuovo. Serra, mi
disse che visto come era andata col Nuovo avrebbe chiesto a Vittorio
Lucariello di darmi la possibilità di rappresentarlo nel suo spazio.
Quindi io feci queste due sere di questo spettacolo assolutamente
violento, stranissimo alla Fassbinder, tutto in napoletano, con
queste atmosfere strane. Umberto che conosceva bene Annibale, che
tra l’altro aveva recensito bene Le cinque rose ... gli disse di
venirmi a vedere. Lui venne ma io non lo vidi. Il giorno dopo mi
arrivò una sua telefonata: “Io sono Annibale Ruccello, tu forse non
mi conosci, ti ho visto ieri sera una
cosa straordinaria,
bellissima, ti voglio incontrare, come devo fare?”
Decidemmo di
vederci il giorno dopo e lì nacque questa straordinaria atmosfera
sulla base di non so cosa. Io non avevo ancora visto niente di suo,
però ne avevo sentito parlare; per le cose che aveva fatto era già
più noto di me. Lui andò a fiducia, sulla base di quello che aveva
visto, ebbe questo coraggio enorme.
Lui mi colpì non in base a
quello che era, un ragazzo nient'affatto imbarazzante, con un
gran tratto dì umanità e di entusiasmo sul cui viso non ho mai visto
quello che alcuni dicono di vedere sul mio: l'ombra, la tristezza.
Lui esibiva questo sorriso a 44 denti ma soffriva molto invece.
Aveva a differenza mia la capacità enorme di speronare la tristezza
del reale con questa sua umanità. Di là è nata la nostra amicizia.
D - Maschito! Ti ricorda qualcosa?
R - Si. Mi ricordo
uno degli ultimi rave che facemmo io e Annibale che si chiamava
Tatuaggio Metropolitano nel quale lui faceva le cose sue io facevo
le cose mie, in questo paesino dove fummo chiamati per moneta a fare
questo spettacolo che ci vedeva tutti e due en travesti, in un paese
con le femmine con i panni neri in testa. 1986… un mese prima che
morisse Annibale. A rischiare di essere linciati.
A Salerno al
Ridotto venne una professoressa a vedere Scannasurice con la regia
di Annibale e mi disse con l’animo dilacerato: ‘io la capisco questa
problematica che è proprio di voi’ intendeva dire diversi, … e noi a
dire ‘ma che dice questa’?
Maschito. Un’esperienza così estrema
non l’ho più fatta. Ci portò un impresario di Potenza, Rocco
Laboragine… pazzi, ma noi avevamo bisogno di lavorare … ma non lo
farei più. Tante volte mi è venuta voglia di scrivere su di lui, su
queste storie, che prima o poi scriverò un libro, di intimità,
verità conosciute e sottaciute sulla diversità che era di Annibale
ed è la mia, una grande diversità che è la forza della sua
drammaturgia e della mia drammaturgia. Naturalmente con grande
differenza di estrinsecazione.
Ma qui, come ti dicevo, si
aprirebbe anche un doloroso discorso sull’editoria …
D -
Apriamolo allora …che anche a me non mi pare sia molto presente.
R - Eh… non esiste proprio. E quando ti chiedono ‘me lo dai
questo testo lo vorremmo pubblicare’… è successo per Festa al
celeste e nubile santuario. Recentemente l’hanno voluto pubblicare,
una casa editrice di Salerno e glielo dato, proprio in previsione
della messa in scena che avrei fatto e ora lo si può trovare. Un
testo e una raccolta, L'angelico bestiario, che non si trova più
perché i libri delle edizioni Ubu non si trovano più e ho dovuto
rieditarlo.
Poi è capitato che ho scritto la Carmen per Martone,
si è presentata l’occasione della casa editrice e l’ho pubblicato;
ma piccole cose spicciolamente. Compleanno me lo pubblicò Letizia
Battaglia nell’87 a Palermo.
Tutte queste piccole case editrici
che si dedicavano al teatro sono scomparse per cui adesso il teatro
chi lo pubblica? Sarebbe opportuno aprire un discorso sulla editoria
italiana che secondo me è pessima… Chi si fa carico del teatro oggi?
Si pensa che il teatro sia l’ultima ruota del carro … si sono fatti
gli stabili e si è sistemato il teatro quando poi non hanno capito
che il teatro è l'Archè, è il tutto, almeno in una certa accezione,
perché non puoi identificare il teatro con lo spettacolo, sono due
cose diverse. Uno è una processualità l’altro è un approdo…per cui
il fatto che non ci sta un’editoria legata al teatro mi sembra
preoccupante, o se ci sta è piccola cosa.
D - Ma tornando ad
Annibale, alla sua diversità…Tu mi lasci interdetto. Dici che la sua
diversità era sottaciuta e nascosta quando poi la cosa era
evidentissima. Anche lui al Crasc ce ne parlava.
R - Ma la
famiglia era, se non all'oscuro, in opposizione; soprattutto col
padre; con la madre, invece, aveva un rapporto molto aperto,
complice, tant'è vero che l'ispiratrice delle sue cose, come
l'ispiratrice delle mie è mia madre, era sua madre. La signora Pina,
una figura straordinaria.
Queste sono cose di cui abbiamo sempre
parlato. C'è stata sempre una spaccatura nella sua vita: da un lato
la sua famiglia, figlio unico con grandi speranze, dall'altro lato
la normale accettazione della sua diversità, un po' anche, se vuoi,
donazione.
Su questo si tace, non si mette in evidenza questa
forte componente connotativa che deriva dal Camp americano, così
come ne vengo io.
Jennifer, Week End, Notturno, così come la mia
Cartesiana, vengono dal Camp americano, direttamente da Tennessee
Williams, da Truman Capote, da Gore Vidal; c'è tutta una cultura
libertaria, omosessuale che non ha antecedenti nella cultura
napoletana. Lui la vecchia cultura napoletana non ce l'ha, non gli
appartiene, se non vogliamo passare attraverso quella becera del
femminiello, che è tutt'altra cosa.
D - E allora Patroni
Griffi? Scende giù per Toledo per esempio?
R - Patroni Griffi
ha sempre sostenuto che la sua persona sociale è da tenere separata
dalla sua persona individuale. La sua diversità se l'è vissuta
sempre in una maniera molto discreta. E' nuova questa cosa che in
noi l'aspetto personale, soggettivo, e la questione sociale della
differenza, si univano per la prima volta.
Non a caso noi
venivamo da un’esperienza politica, cosa che troviamo poco negli
scrittori precedenti. Giustamente citavi Scende giù per Toledo.
Infatti, se vogliamo pensare a un antecedente napoletano che ci ha
influenzato in tal senso è sicuramente Patroni Griffi.
Ma sul
piano della scrittura, del coraggio proposizionale, del protagonista
che non è più il solito macho ma è un diverso, da un punto di vista
politico la forza stava proprio in quello: nel dire per la prima
volta il personale, cioè quello che io scrivo sono, non è una
opzione astratta.
Io questo l'ho fatto sempre con determinazione
anche perché a differenza di Annibale uscivo da un’esperienza
politica forte: prima i movimenti studenteschi, la sinistra
universitaria e poi il F.U.O.R.I.! Le prime cose che ho scritto e
che sono ancora testimoniabili, sono degli articoli sul giornale
ufficiale del fronte di liberazione omosessuale. Con Mario Mieli ero
uno degli animatori del gruppo, una delle mascotte. Io poi mi sono
laureato in filosofia e uno dei miei intendimenti era quello di non
separare più il personale dal politico; e l'originalità mia, se di
originalità si può parlare, è che questo tipo di educazione, di
acculturazione, non propriamente italiana, ma americana e francese,
la andavo ad innescare su un mio patrimonio linguistico
antropologico che è stata la miscela esplosiva della mia
particolarità.
D - Ma per Annibale oltre al Camp non valeva
di più una cultura B-Movie, fumettistica, da telenovela?
R -
In me era molto forte, in lui certamente di meno. Io ho sempre
badato di più al rapporto politico diretto delle cose.
Per me il
teatro, anche se faccio i salti mortali per farlo capire, è
politico. Annibale si pasceva del fatto che quello che faceva era
più legato a un gioco, alla tradizione. Alcune nostre controversie
si reggevano proprio sul fatto che lui era uno sfegatato ammiratore
di Natale in casa Cupiello.
Queste per me erano dolci favole, in
realtà noi eravamo già altrove. Ad esempio, e questo nessuno lo sa,
lui voleva fare una rivisitazione di Viviani dove io facevo 'O
sapunariello che viene violentato da tutti e centosedici pezzenti.
Poi voleva fare Natale in casa Cupiello in un altra chiave. Io
ero sempre meno d'accordo perché questa mia esperienza politica mi
faceva nascondere meno.
Tu hai detto una cosa giusta. Annibale
non si nascondeva. Annibale parlava di questa sua differenza perché
la percepiva, la sentiva in una maniera creativa. Ma la cosa, ed è
il rischio più grosso, è che Annibale sta passando del tutto
anonimamente come fosse un qualunque bravo autore degli ultimi
trenta-quaranta anni, senza dare uno sguardo a quel demonismo, quel
maledettismo che solo io conosco e che è la sua diversità. Questo
non mi sta bene. Addirittura si è pensato una volta di far fare Le
cinque rose... a due donne. Quando io penso che la stessa Anna
Cappelli è un omosessuale.
Ho una forma di rispetto profondo per
i genitori, per la madre in particolare. Non sono mai venuti a
vedere Compleanno, fotofinish di Annibale nel quale si tocca con
mano la sua diversità.
Sua madre vive nel ricordo di questo
figlio. Quando scriverò, se lo scriverò questo libro, dirò il grande
dolore di Annibale per questa grande mancanza d'amore che c'era
nell'universo. Le sue storie maledette, sbagliate, deluse, illuse;
passavamo ore nei camerini a piangere sulle sue storie, sulle mie. E
da qui nascevano gli spettacoli, i duetti, la voglia di divertirci.
Ti racconto un episodio a proposito di Maschito: facevamo la fame
(se è per questo la facciamo ancora adesso che vinciamo i premi). La
sua compagnia "Il Carro" era piena di debiti, di contributi non
pagati. Lui mi chiese se potevo fare Scannasurice senza essere
pagato. Io avevo la scuola e avevo questo bisogno di scappare dalle
quattro ore.
Dissi di si e un giorno ci chiamarono per fare
questo Duetto Metropolitano in questo paese sperduto da Dio e da
tutti; Maschito appunto. Siamo andati io e lui soltanto con quella
sua macchina che lui non sapeva guidare, che aveva orrore di
guidare, camminava a passo d'uomo - poi vengo a sapere che è morto
d'incidente d'auto - io dicevo “sbrigati che arriviamo stasera,
stanotte”, e lui a dire "abbi pazienza".
Arrivammo in questo
paese dove ci stavano solo le vecchie e i bambini e recitammo questo
testo dove lui era vestito da mamma con un camicione lungo e degli
enormi "zizzoni" ed io da sposa, a rischio di essere lapidati,
trucidati.
E quando fini lo spettacolo, c'erano tutti con le
facce tese e gli occhi spalancati e un vigile ci ha preso per un
braccio e ci ha portati letteralmente via dal paese, come si faceva
un tempo con gli scemi, con gli untori. Questo per dire che c'è
tanta materia di vita da raccontare.
D - Cosa pensi di quelli
che si ostinano a vedervi continuatori di Eduardo? O comunque di
questa drammaturgia e di questi autori del “Dopo Eduardo" di cui si
parla.
R - lo non sono mai stato d'accordo con questo "Dopo
Eduardo". Sono convinto che c'è una spaccatura storica, culturale,
molto netta tra noi e il precedente. Noi siamo degli orfani. La
differenza di Annibale non solo sessuale ma globale, non è stata
messa a fuoco ed è una delle ragioni per cui Annibale si fa in scena
in cattivo modo.
D - In modo poco o troppo contemporaneo?
Centrano qualcosa la tradizione e il tradimento?
R - Non
direi poco contemporaneo. Io personalmente del contemporaneo faccio
finta di non accorgermene. I miei sentimenti, testa e cuore sono
probabilmente appartenenti a un uomo del secolo passato. Credo che
la ragione sia nell’interpretazione della scrittura e dell’uomo
Ruccello. I nostri testi fanno riferimento a un’umanità scomparsa
però so che si rivolgono tantissimo al presente, a come siamo
situati. In questo senso il nostro teatro è antico e contemporaneo.
La nostalgia è un bel sentimento però se ci rimani dentro resti
bloccato rispetto al futuro, devi raccogliere i semi di ciò che è
stato nel mondo ma nello stesso tempo fare il sacrificio di
bruciarlo per accedere ad altro.
Poi, per quanto riguarda la
tradizione e il tradimento, l’ho sempre detto: tradizione non è
convenzione, ma è sempre un profondo tradimento di ciò che è stato
dato, anche involontario. Il teatro è un grande ossimoro, è una
contraddizione vivente, l’unione di tutti i contrari. Il tradimento
è implicito nell’atto stesso di fare teatro e quindi la parola
tradizione la si può interpretare anche in un’altra maniera. Metti
me, io provengo da una scia di drammaturghi napoletani grandissimi,
Eduardo, Viviani, Petito, Patroni Griffi, però ognuno di noi è
diverso dall’altro. La mia pulsione principale è stata quella di
scrivere in lingua napoletana un teatro moderno, che almeno in
apparenza non presentasse dei legami espliciti con la tradizione
precedente. Più che risentire della tradizione dell’avanguardia o
post-avanguardia novecentesca, io personalmente ho molto subito
l’influsso dei francesi. Di Artaud in primo luogo, di Genet e di
altri, per ragioni mie, costituzionali, di formazione culturale.
Questa cifra di collegamento con la tradizione si legge però in
Ruccello, era molto più forte in lui e lo confessava lui stesso che
però si ispirava anche a Proust e ad altri scrittori stranieri prima
ancora che ai napoletani. Per trovare un mio legame con la
tradizione bisogna scavare molto a fondo, e per quel che mi riguarda
è la lingua. La lingua in me è contaminata dall’influsso di altre
scritture, di altre componenti culturali. E credo che questo ci
appartenga come generazione. Io vengo dal ’68, siamo già molto
lontani dagli anni ’50 o ’60 in cui dominava la lezione eduardiana.
Poi nel tempo, il rapporto con i miei avi è stato più esplicito e
più forte in me, tanto è vero che ho scritto dei testi in omaggio a
questi signori che ci hanno preceduto: Passione e voce per Salvatore
Di Giacomo, Tà-kài-tà per Eduardo, L’opera segreta per Annamaria
Ortese.
Ma la nostra forma di scrittura è completamente diversa,
è sicuramente una forma di scrittura molto più legata alla
sperimentazione degli anni ’70 e poi ’80, che è all’origine di tutto
il mio teatro. Ma anch’io tradisco me stesso. Io sono un’altra
persona quando scrivo, però quando metto in scena i miei testi
tradisco ciò che ho scritto, non sono più Enzo Moscato. Amo questo
termine “tradinventare”, in altre parole operare una traduzione non
letterale, metaforica, molto simbolica, anche perché poi deve
aderire allo spirito napoletano, che è proprio del mio teatro.
D - Ma per quanto riguarda la traduzione sulla scena, era
Annibale a tuo modo di vedere il più ‘giusto’ a mettere in scena le
sue cose?
R - lo trovo che lui avesse la grande capacità di
mettere in scena splendidamente Le cinque rose di Jennifer.
D
- Che per te era anche il suo testo più bello?
R - No, il
testo in se per se non è il più bello e il più perfetto. Io direi
che il più bello è Week End. Ferdinando per esempio apre su un
versante di Annibale che purtroppo non abbiamo potuto vedere. Il
grande dramma, la grande fiction non era tipica di Annibale ed è
strano che nello stesso periodo io ho scritto Piece Noire e lui
Ferdinando che sono due saghe, non due testi teatrali. Io non ho mai
più scritto cose con tanti personaggi.
Ferdinando così prolisso è
come se fosse una improvvisa chiusura su una cosa e una repentina
apertura su un'altra. Io trovo che drammaturgicamente sia da
riconoscere assolutamente più vicino ad Annibale Week End, con tutto
il Camp che c'è dentro.
Ferdinando già non è più Camp.
Se
Annibale fosse vissuto, avremmo potuto vedere o non vedere il
prosieguo di questa apertura, che resta come una propaggine strana.
Straordinario testo come dettato sotto visione, tessera di
riconoscimento del drammaturgo Annibale Ruccello.
Poi parliamoci
chiaro, Don Catellino in Ferdinando si può equiparare a Jennifer.
D – Anch’io trovo Week end il testo più bello di Annibale, ma
anche un testo scritto abbastanza male, soprattutto nei suoi
personaggi maschili
R - Annibale come me non eccelleva nel
tratteggio delle figure maschili come invece in quelle femminili e
androgene. D'altronde noi siamo gli unici autori contemporanei che
hanno scritto per le donne. Non si scrive più per esse. Anche la
signora Danieli che è divenuta come una musa ispiratrice dei nuovi
drammaturghi, voglio dire, il dirlo continuamente...
D -
Ripetere da parte sua continuamente questa cosa ti ha dato un po'
fastidio?
R - No. Voglio solo dire che senza di noi non avrebbe
potuto fare i grandi spettacoli che poi ha fatto.
D - Fuori
di polemica. Continuiamo a parlare di Week end.
R - Giusto.
In Week end, non è tanto lui ma è lui proiettato nella madre. Ida è
proprio sua madre, un personaggio piccolo borghese, piena di strani
tic clinofobici, pieno di pulizia, di ordine, e poi dentro di se ci
sono degli abissi, delle voragini.
Io la signora Pina non l'ho
mai conosciuta bene, soprattutto negli ultimi tempi poi me ne sto un
po' lontano. Il suo dolore mi mette un po’ in imbarazzo.
Ma lei è
una gran donna come del resto mia madre. In questo tipo di
scrittura, le madri trionfano. L’estrazione sociale è diversa: la
mia proletaria, la sua di estrazione borghese, con tutti i limiti
della provincia raddoppiati di segno. Noi invece abitavamo nei
quartieri spagnoli; credo che ci abitassimo da sempre. La mia è
stata l'unica famiglia che si è esiliata. Mio padre ha approfittato
di un guasto in casa attorno agli anni 60. Avessi continuato a
vivere nei quartieri, forse tutto questo non sarebbe accaduto.
D - Scusa se ci ritorno, se faccio un passo indietro…ma vorrei
che mi dicessi qualcosa di più su questa relazione, esistente o
presunta, tra la vostra drammaturgia e la grande tradizione del
Padre nobile Eduardo.
R - Non sono mai stato d'accordo con
questa affiliazione diretta della nostra scrittura soprattutto con
Eduardo, del quale sono uno sfegatato ammiratore soprattutto di lui
come attore.
Acclarato questo, tanto meno sono d’accordo con una
affiliazione di tradizione tra quelle che sono le nostre figure
grammaticali e retoriche di travestiti, di mutanti, di androgini,
che non sono interpretabili con la cultura dei femminielli. Non
c'entra niente; ho sempre avuto questa enorme onda di disturbo
quando interpreto i miei monologhi che sono almeno nell'intenzione
misteriosofici e profondamente legati a fatti strani di pensieri.
Cartesiana fa piazza pulita dal titolo di questa linea di pensiero e
io non ce l'ho mai potuto di questo rivoltarmi o accostarmi, che è
la dimensione di altra gente, ma non è la mia.
D - Quando si
interrompe questa continuità e quando la dimensione del femminiello
raggiunge l'acme?
R - L'acme lo raggiunge con La gatta
cenerentola; quello è un recupero o una riscrittura in chiave
moderna di tutta la cultura straordinaria del femminiello a Napoli.
Ma non c'entra niente con la nostra concezione dell'androgino in
scrittura. Questi personaggi oltre a rappresentare un momento di
passaggio in cui le identità fluttuano, rappresentano
la
diversità della nostra città.
Siamo lontani da Pirandello, da
Eduardo e persino da Patroni Griffi che ha qualche vicinanza con
noi, con il personaggio Maria Callas di Persone naturali e
strafottenti.
In primo luogo queste figure incerte rispecchiano
se vuoi il tipo sociale, secondo perché credo che la scrittura sia
continua mutazione, trasformazione. Non a caso ho fatto uno
spettacolo che si chiama La psychose paranoiaque parmi les artistes
dove al centro c'è l'alchimia come metafora del fare teatro.
Non
è un caso che lo scrive uno che si è laureato in filosofia e formato
sui testi di Jung e degli alchimisti. Per questo io mi reputo un
autore / attore di teatro occasionale.
Forse uno scrittore,
probabilmente. A conti fatti io dedico più tempo, più energia, più
sforzo all'atto materiale dello scrivere che non alla messa in
scena.
Quando metto in scena io sono e devo sentirmi libero di
giocare. Mi meraviglio quando la gente viene a parlarmi di
capolavoro quando quella tale cosa mi è venuta così. Dove invece
getto il sangue è sulla scrittura, dove bisogna ricreare con parole
di oggi il concetto di ieri.
La scrittura è l'atto stesso della
mia esistenza. Credo di poter dire di me "scrivo dunque sono" ma
anche “sono perciò debbo scrivere". Sognavo ininterrottamente di
fare lo scrittore.
D - Tu sei nato sui quartieri e per uno
che nasce sui quartieri sognare di fare lo scrittore, fare il
professore di filosofia e poi teatro è un bel salto.
R - Sui
quartieri c’ho vissuto fino ai 10 anni poi ci siamo trasferiti a
Fuorigrotta mi sono laureato e dopo ho preso la mia strada. Negli
anni ‘60 Napoli esondò, esorbitò dai quartieri, si allargò e molta
gente indigena andò a Agnano, Bagnoli, Fuorigrotta, rimanendo quella
popolazione lì, gli zingari di Viviani sostanzialmente. Anche questo
l’ho vissuto con grande dimestichezza… non mi sono mai sentito
chiuso in niente anche quando ho fatto il professore di filosofia e
dovevo insegnare ai non napoletani, io mi sono sempre sentito a mio
agio perché forse avevo le corde giuste per leggere il mondo in una
maniera multipla come la mia città è multipla. Certo io sono un
ragazzino che ha potuto fare questo salto perché ho avuto la fortuna
di poter leggere. Trovare il libro, il libro valido quello che ti
cambia la vita per me è stato determinante.
D - Sognarlo sui
quartieri è alquanto strano?
R - Stranissimo. Infatti ci devo
tornare e devo scrivere di questo. E' una cosa che mi sta
allucinando. Mai come in questo periodo non ho un po' di tempo per
me, tanto che mi chiedo quando verrà il momento mio.
Vengo da
una famiglia che ha sospetto della cultura; poi è chiaro che anche i
quartieri sono pieni dì tradizione e di umanità. Strano è che da
bambino le cose che mi interessavano erano le biblioteche.
Quando
in prima media sono andato via dalla mia scuola, sballottato e
trapiantato dalle monache francesi di Montecalvario (i bambini del
quartieri andavano dalle monache francesi perché esse davano una
forte mano ai ceti popolari) timido com'ero e con la media
dell'otto, spesso me ne andavo per la città a piedi da solo e per
delle ore.
Poi un giorno mi sono trovato davanti alla Lucchesi
Palli. Mi chiedevo cosa ci potesse essere dentro così chiusa e
protetta.
Benché vietata ai minori provai più volte ad entrarci,
ma solo con l'aiuto di un mio cugino riuscii ad avere Guerra e pace.
In quel libro mi sono sprofondato senza capirci un accidente; forse
è lì che ho sognato di scrivere. La scrittura su tutto.
Per me se
ne può cadere il teatro; è soltanto un’occasione di lavoro non
fondamentale per me.
D - In che modo la filosofia ha
influenzato il tuo teatro?
R - Adesso, dopo tanti anni…
potrei quasi dire che teatro e filosofia sono la stessa cosa per
me…e cioè la dimostrazione in atto di tutto quello che ho imparato
prima da studente poi da professore. D’altra parte non dico una cosa
nuova… i filosofi francesi dell’ultima generazione Deleuze,
Guattari, Phillip Sollers hanno molto lavorato sul binomio teatro e
filosofia…. si potrebbe pensare che il teatro preso solo come
mestiere, artigianato, sia meno di quel che promette… plana basso.
Invece il teatro è una forma quasi metafisicale di pensiero. Chiaro
che questa forma deve poi diventare atto, parola, gesto…. ma non è
una cosuccia. In Italia siamo abituati a pensare al teatro come
l’arte dell’improvviso, ad una maniera molto piccola di concepire il
teatro, cosa che non avviene per esempio all’estero. Noi per molto
tempo siamo stati abituati ad una filosofia solo speculativa…mentre
altrove, in Francia per esempio il grande filosofo Derrida ha
scritto anche per il teatro e rappresentato lui stesso le sue cose
in scena alla Sorbona.
Il mio legame col palco si sviluppa
intorno alla mia radice primaria che è Napoli, che è quello che mi
serve a mio avviso per volare più in alto attraverso questa pratica
multilingue e abbracciare altre dimensioni dell’essere teatro. Io
non faccio teatro, io sono teatro o il teatro è me. Siamo sempre
intorno a questa faccenda dell’ontologia. Cioè che le parole, il
teatro nel suo totale può essere anche l’espressione laica
dell’immanente. Oggi ho molta difficoltà a definire il mio teatro, a
dire cosa è stato filosofia e cosa è stato teatro. Ogni tanto, dopo
aver messo in scena un mio lavoro, ho l’esigenza di lasciarlo lì,
osservarlo da lontano e uscirne fuori…. che è un atteggiamento molto
da filosofo. Ed è anche auspicabile che questa pratica aumenti nel
teatro italiano. Perché c’è un teatro e un metateatro, come c’è un
linguaggio e un metalinguaggio. Ora, non so quanto di quello che sto
dicendo è facile o no. Ma io credo che intorno al teatro non
convenga fare discorsi facili…credo che convenga far comprendere che
il teatro è una faccenda complessa, seria. Sarebbe bene avvicinarsi
al teatro con un bagaglio di formazione già abbastanza consolidato.
Io ho cominciato che ero già professore di liceo, e probabilmente le
mie lezioni sono state ‘il mio primo essere in scena’ e i miei
studenti sono stati il mio primo pubblico. Intendendo per teatro non
l’istrionismo, ma esattamente l’opposto. Devi nasconderti dietro le
parole, dietro la messa in scena, dietro gli attori. Non è un caso
che il teatro muore dietro una iper tecnologia portata all’estremo.
Il teatro è un’arte umana e al lussuoso io preferisco il
francescano. Artaud diceva Il Soffio. Che è tutto non è soltanto il
respiro. Dovremmo tornare a guardare ai grandi maestri che hanno
fatto queste strade prima di noi che hanno aperto questi sentieri…
sembra che siano stati un po’ dimenticati e invece hanno dedicato l’
esistenza a queste cose.
La scrittura è stata il bell'incontro,
sognare; mi ricordo che dall'alto del parapetto di Palazzo Reale
guardavo il mare. Questi sono i miei ricordi, ed è per questo che il
mare si ritrova tanto nei miei testi, come del resto è fondamentale
in molti altri scrittori napoletani. Da allora, ho sempre fuggito.
Ho finito di leggere in questi giorni un bellissimo libro di Anna
Maria Ortese, poco conosciuto, che si chiama Il porto di Toledo,
dove lei da bambina faceva le stesse cose, nomade per questa città
sconosciuta e orribile con questa che era il punto di domanda.
Allargando il discorso, ancora oggi io sono in fuga anche da me
stesso, dalle istituzioni, dalla stabilità, Quando mi passarono di
ruolo in filosofia dissi che non era il posto che volevo. "E tu per
anni che ci sei stato a fare?” mi dirai.
Sempre fuggire; ed è
stata la mia vita dopo. Fuggire restando qui in questa città strana
che ti permette delle linee di fuga con poco. Non sai spiegarlo ai
Milanesi ai Torinesi che se ne vanno. Lo dico anche in Partitura:
"città uterina e fetida che mi hai nascosto meglio di un ebreo".
Questo è un grande ventre materno comodo per certi versi, ma tanto
scomodo per altri.
D - Comodo e a volte troppo rassicurante.
R - Uno deve essere rassicurato. Di rassicurazioni in genere non
ne abbiamo e se Napoli ti dà queste, prendile.
D - Hai dei
libri che ti hanno fatto da faro, da rifermento nel tuo percorso?
R - Quando sono cresciuto io Napoli era una città piena di
librerie di bancarelle di libri …era un'altra cultura e chi voleva,
certo non tutti, ma chi voleva sapere altro e cercava… su quelle
bancarelle trovava il suo destino, la sua fortuna.
Anche Anna
Maria Ortese ha avuto lo stesso destino tutti gli scrittori
napoletani nascono da una situazione di disagio che attraverso i
libri hanno superato. Io rimpiango questa Napoli dei libri …e questa
Napoli da cui non saprei separarmi.
D - Mi sono sempre
sentito addosso un verso che tu usi in Partitura. Dulce et decorum
est pro patria mori. Per me tornare è stato un atto viscerale, un
atto d’amore.
R - Io ho due sorelle, adesso una ahimé, non
c’è più, ma si sono sposate con dei cittadini
americani e se ne
sono andate da Napoli e per me questo fatto che parte della mia
famiglia se ne sia andata in America ormai 50 fa, facendo figli
americani, io ho nipoti americani, mi fa pensare.
D - Sei mai
stato in America?
R - Io no, ma mia madre si. E ci andò per
la prima volta a 80 anni… mia madre che non si muoveva mai, sempre
in casa… ha preso l’aereo e è andata due volte dalle figlie. Per cui
io non ho mai sentito questo limite. Andarsene io lo capisco perché
ci sono a monte delle ragioni per cui tu devi socialmente,
economicamente, simbolicamente andare via; però nello stesso tempo
andare via è un fatto esteriore e ce lo dimostrano le vicende di
tanti scrittori che a un certo punto sentono proprio l’esigenza
fisica di ritornare.
La stessa Ortese, per sue ragioni
economiche, era costretta a vivere a Rapallo con la sorella
handicappata, ma Napoli ce l’aveva sempre in testa. Quella è una
condizione dell’anima… allora puoi stare pure a Nashville …
D
- Nonostante questo tuo legame viscerale, che tu a Napoli sia
stimato, apprezzato, non sento però in te un rapporto pacificato con
la città.
R - Non c’è un rapporto pacificato con Napoli e i
napoletani. Non c’è dal punto di vista istituzionale una condizione
di serenità; direi che nessun grande napoletano sia mai stato
nell’animo pacificato con la città. Eduardo, Viviani tutti in
conflitto c’è sempre stato un polemos, però quella è una condizione
necessaria per migliorare per farla diventare altro da sé. Anche i
grandi che mi hanno preceduto, Patroni Griffi, Rosi, con cui ho
avuto la fortuna di parlare, loro hanno avuto un sogno di Napoli,
come io ce l‘ho, che non si deve realizzare… per cui non puoi
sentirti pacificato.
D - Poco fa dicevi delle cose dalle
quali sono partito anch’io. Napoli e lo stare a Napoli. Partire ma
tornare… è un atto profondamente politico.
R - Per me tornare
è sempre relativo. Come lo stare... andare e venire è una formula
magica che ti permette di tollerare una situazione che altrimenti ti
soffocherebbe. Che non tollereresti se fossi costretto a essere
perennemente stabile.
Tutte le città hanno i loro problemi.
Anche se tu vivessi a Parigi o a Londra prima o poi ti accorgeresti
di un limite che magari non ti sta bene e che ti devi caricare…
quindi una città vale l’altra e visto che c’è questa mobilità di
spostamento o stai a Pagani o a Napoli o a Palermo l’importante è
che qua non devi stare … devi stare e devi non stare…Io non sento
una riduzione quando mi definiscono un autore Napoletano. Se Napoli
la intendiamo come ne stiamo parlando adesso in una maniera cosmica
come una metafora del mondo come la Londra di Shakespeare, va bene.
Se la chiudi nei localismi, negli etnicismi, nelle territorialità,
allora non va bene e hai davvero a che fare col teatro.
D -
Non hai mai pensato di andar via?
R - Come ti dicevo io ho
delle sorelle che si sono sposate con americani, ho nipoti
americani. Anche mia madre che ha ottant'anni ci è andata due volte.
lo non ci sono mai andato, perché per me non rappresenta ancora una
linea di fuga l'America. Sono un passionale anche se non sempre. Un
paio di volte ho avuto delle storie d'amore che mi hanno spinto in
altre città. Mi armavo di armi e bagagli e andavo, mai però che mi
ci mettessi per calcolo.
Ma poi non è vero che muovendoti da qui,
diventi qualcuno altrove; o diventi qualcosa qui o niente. lo non
concepisco quelli che continuano a nutrirsi di Napoli avendone prese
le distanze. Ai De Crescenzo e a quelli come lui io gli impedirei di
pronunciare la parola Napoli, perché noi ci facciamo un mazzo così
per vivere qui, noi che abbiamo fatto le nostre scelte, per
raccontarla, per sperare di cambiarla, anche se ci capita di
detestare questi luoghi.
Da ragazzino ho girato tutti i luoghi di
Napoli, poi mi hanno scoperto e hanno mandato l'avviso a casa e mi
hanno cambiato di scuola, dalla Pasquale Scura a Santa Maria di
Costantinopoli dove ero appena più tranquillo, perché la nuova
compagnia mi intimidiva.
Andavo all'avventura conoscendo il
sesso, gente strana, umanità. Anche rispetto ai comportamenti delle
madri che oggi non fanno uscire con serenità i piccoli da casa. Io
questo timore lo condivido. Non è più l'epoca nostra in cui noi
eravamo in strada e c'erano gli anticorpi rispetto al reale. Io non
so dirti se quello che si sente oggi succedesse anche allora, sono
stato un figlio del vicolo, perciò protetto. Quando mia madre doveva
andare a lavorare noi per lunghi lassi della giornata eravamo alla
mercé di tutti. Ma non posso raccontarti di traumi. Le violenze
della gente che si picchiava, quella si, ma era violenza psicologica
una ferita rispetto alla visione del mondo, mai di violenze
sessuali. Entravi in una casa ed era la tua. Era un’altra epoca,
l'epoca in cui sui quartieri non era ancora arrivata la 'roba'.
I costumi non si erano imbarbariti, la gente era altra gente. Ero in
giro e un signore mi seguiva, un'altra persona mi teneva gli occhi
addosso, mi controllava; mi sentivo libero e protetto, seguito passo
passo, dovunque fossi andato, la notizia arrivava a casa e a volte
anche prima del mio rientro.
D - C'è stata una prima volta,
un primo incontro, un luogo che tu hai giudicato eccezionale per la
tua vita?
R - Da un certo punto della mia vita ho dovuto
occuparmi di me stesso. Dagli undici anni in poi è stato un lungo
interrogarsi, un lungo sbagliare.
Ancora oggi anche quando alla
fine uno glorifica le proprie scelte, non so dirti se sono state
scelte fino in fondo giuste. A volte come Sartre, mi dico "ma quale
libertà"? Uno è condotto e determinato già; è tutto già
condizionato.
Sono nato in un gran bel palazzo del settecento,
sui quartieri, lindo, pinto e con un bel cortile interno. La mia
famiglia era lì da generazioni, per cui ho trovato già la strada
spianata dalle relazioni con i vicini, già calato in una realtà di
integrazione.
Per me è stato traumatico partire da lì. Ho sempre
considerato Fuorigrotta un luogo di deportazione. I primi anni non
volevo starci. Scappavo e tornavo sui quartieri, dai miei Zii, alle
mie amicizie.
Qui era tutta campagna. Tornavo al chiuso del
vicolo, ai giochi. Lì c'erano i miei fratelli sposati giovani già
con figli, tornavo agli odori. Ancora oggi alla Galleria Toledo,
vengono molti del quartiere che si ricordano di me, per non parlare
dei miei tanti nipoti.
Qualcuno si ricorda addirittura di come
allora mi piacesse fare queste cose di teatro. Adesso non amo molto
tornarci. L'organizzatrice della Galleria Toledo mi deve sempre
molto pregare, la deve mettere sul ricatto morale. Ma i quartieri
sono cambiati.
Faccio ancora oggi dei sogni in cui salgo per via
Gilardi, per la Conciliazione, dove in ogni luogo c'è un parente, un
mezzo parente o qualcuno che conosci e ti era vicino. Ricordo mio
nonno che teneva un basso, un negozio, dove praticamente vendeva di
tutto e dall'altro lato lo zio di mia madre che aggiustava e
fabbricava "pupate".
Non è stata una famiglia felice, nel senso
che io ho perso mio padre molto presto, dopo aver cambiato casa come
se si fosse trattato del cambiamento di luogo. Così mia madre ha
dovuto assumersi tutte le responsabilità, le privazioni erano molte.
Ricordo che per avere il primo vestitino, dovetti aspettare il
dodicesimo anno di età e guardando lei alle prese con questo lavoro,
antico e creativo, e questi vestiti bellissimi, appoggiati sopra il
letto, io mi incantavo.
D – Cosa hai dovuto affrontare in
famiglia per questa tua diversità?
R - Qui andiamo molto
lontano, io credo che la scrittura sia già una forma di differenza.
Propendere verso segni non propriamente materiali pura aria, che per
un'altra cosa già questa è differente.
D - Mi piaceva
parlarne perché l'altro giorno parlavo con un mio amico che adesso
fa lo stilista di abiti da sposa… ancora adesso en travesti… che per
qualche ora alla settimana fa da balia al padre affetto da demenza
senile, lo stesso che negli anni ‘80 lo picchiava a sangue perché
non sopportava la sua omosessualità e lo portava dallo psicologo per
farlo curare. In quegli anni anche la medicina…
R - Era
bloccata su posizioni arcaiche. Ma io ho fatto battaglie epocali su
queste cose qua. Annibale un po’ meno perché poveretto non ci è
potuto arrivare morto a 30 anni, ma tra i suoi scritti si comprende
la sua posizione.
Oggi è anche più grave perché in quell’epoca lì
non cerano gli strumenti per poterti creare una autocoscienza
adeguata. Oggi ci sono e ci continuano ad esserci le mazzate,
l’esclusione, la perversione. Certo però che tu non ti puoi fare
carico di tante le cose.
Diciamo che Carcioffolà e Scannasurice
sono stati anche un mezzo, grandi aperture rispetto a certi fatti e
non solo ad una tradizione, a un modo di concepire il teatro e però
anche dei grandi atti apologetici.
Io ho cominciato a sentire il
teatro non solo come esternalizzazione ma anche come autodifesa ed è
una cosa che io insegno all’attore sennò tu muori, sennò ti uccidono
e questo l’ho capito molto bene.
In quegli anni lì c’erano queste
formule di reazione, oggi gli spazi di combattimento mi sa che non
esistono più, perché se poi tu vuoi spacciare per differenza quello
che io vedo, e lo dico da una concezione derridiana della differenza
che ho, che filosoficamente è stata spiegata prima dai francesi poi
dagli italiani, la differenza non solo dal punto di vista sessuale,
la differenza bene o male significa ‘Altro’. La risposta la deve
dare un epistemologo, ammesso che esita ancora l’epistemologia; la
risposta non la può dare un teatrante se pure di grande caratura
verbale e drammaturgica.
Del resto anche a livello istituzionale,
si è mai messo in Italia un teatro nelle mani della differenza? Ci
sono mai stati Deleuze e Buattari e l’ideologia dell’anti edipo?
Gilles Deleuze e Felix Guattari. Due grandi filosofi francesi che
vengono da una parte da Freud e dall’altra parte da Hussler, da
tutta la fenomenologia filosofica del Novecento, che scrivono un
libro che si chiama l’Anti-Edipo, scomparso dalla circolazione, in
quattro volumi, ti lascio immaginare era meglio una tortura cinese,
nel quale libro, gli autori parlano del desiderio come moralità e
come molecolarità. Allora che cosa voglio dire, che tutto si tiene
quando noi parliamo di cultura, tu mi hai pescato questo concetto a
partire da un altro, da un’altra dimensione e io ti dico che l’ho
ritrovato in loro perché il desiderio come moralità appartiene alle
grandi collettività sociali, la società, le istituzioni, e il
desiderio come molecolarità appartiene all’individuo, quindi c’è una
dialettica massa-individuo dal punto di vista del desiderio che non
è il bisogno, il desiderio è l’utopia, è quello che non c’è, è
quello a cui devi arrivare. Non si parla più di desiderio nella
nostra società, si dice va bene, siamo mal combinati, altro che
contemporaneità e modernità, stiamo peggio che nel Medioevo e allora
si parla di bisogno. Il bisogno nasce sempre da una negazione, non
hai una cosa, quindi hai bisogno di una cosa. Si tratta di desideri
materiali direbbe Marx. Il desiderio invece è una tensione, è ciò
che non c’è a cui devi arrivare. E guarda caso non si parla più di
desiderio nella nostra società che è un portato degli anni ‘70, gli
anni di rivoluzione del movimento studentesco e di tante esperienza
diverse, l’ultima volta che hanno tentato di cambiare il mondo..
dopo di che, niente più.
Allora quella lezione dell’anti edipo
così dirompente, la politica del desiderio, dove desiderare è
centrale, per me è fondamentale.
Non è un caso che il mio
personaggio principale di Pierce noire si chiama Desiderio testo con
qui vinsi il Riccione nell’85.
E io vengo da quel mondo lì un
mondo per controribattere all’annullamento all’appiattimento
all’omicidio perpetrato e questo mi veniva dalla lettura di tanti
altri omicidiati dalla società Ginsberg, Artaud, Silvia Platt e
tutti gli altri a seguire.
Il teatro è cultura non ci sta niente
da fare o è cultura o non è. Poi sono cavoli tuoi come veicolare in
forme espressive teatrali la cultura. Noi a teatro non dobbiamo fare
i didatticismi ma la cultura è necessaria.
Ma come si fa a
leggere a capire un quadro di Caravaggio se non hai parallassi
culturali; poi te le devi scordare. Ma non sono fette di melone
estive e io credo che la cultura sia per molti versi diventato
questo, fette di melone. Per le generazioni che ho conosciuto mia
nonna, mia mamma, i miei zii - ma quelli erano grandi napoletani
anche nella loro ignoranza – capivano, lo andavano a vedere il
teatro, i genitori li portavano … mia mamma da piccolina ha visto
Viviani.
D - Prima mi dicevi ‘Vengo da una famiglia che ha
sospetto della cultura’. Non so a casa tua, ma in casa mia il libro
era superfluo. Ho davanti agli occhi mia madre che passava in
rassegna la mia libreria stracolma, anche di ciarpame voglio dire, e
con gesto largo commentava in dialetto: ‘Guarda qua, guarda… tutti
soldi gettati’.
R - Anche a casa mia; mia madre non concepiva
che si potessero spendere soldi per i libri, non era solo un
discorso sulla prima necessità, è proprio la cultura del libro che
manca. Se vuoi intraprendere una attività non redditizia, fai il
libraio o l'editore. Le cose che loro percepivano in me erano mutate
e represse rispetto ai miei fratelli. Avrei voluto giocare con le
bambole, ma questo non andava. Poi questo gusto per il cucito che è
femminile e non maschile. Rispetto alla differenza si è comportata
come qualsiasi altra famiglia, reprimendo: e ne ho sofferto. Non
c'era accettazione anche se ho la sensazione di avere ricevuto
sempre un grosso aiuto sotterraneo da parte dì mia madre.
Io
penso che una madre stranamente (cosa che percepivo anche nella
madre di Annibale) sotto sotto preferisce un figlio diverso a un
figlio normale, perché abissalmente il figlio diverso non se ne
separa mai. Questa è una cosa che non ho mai detto ma sentito
qualche volta. E' probabile. Statisticamente tutte le madri dei
diversi sono molto forti; e bada bene, diversi non solo
nell'accezione sessuale. Il pittore, il musicista, "o pazz", hanno
sempre avuto questo forte ascendente emotivo e poi anche
una
forte emotività.
Io ho avuto un rapporto molto conflittuale con
mia madre. Una donna di oltre ottanta anni che ancora voleva
comandare i figli. Il nostro patriarcato è soltanto di facciata.
D - Anche se erano molto sospettosi dei libri
R - Ma lì
era una imposizione di regime. Si potevano leggere taluni libri
anziché altri. E magari era meglio non leggere proprio però queste
signore che non tenevano neanche la prima elementare, mia mamma
faceva la sarta, erano persone intelligenti che capivano non solo la
concettualità ma anche quando tu gli porgevi la bellezza … e non mi
pare di dire cose nuove. Se noi rileggiamo le Lettere Luterane di
Pasolini…
D - La mia bibbia laica, insieme a Scritti
Corsari…
R - Esatto. …tutto questo lo ritroviamo. E così si
spiega il mio rapporto con Pasolini, che è molto forte. Pasolini è
sempre stato presente nell’immaginario di tutti noi ragazzi e poi
adulti che hanno cominciato a scrivere negli anni ‘80, non solo per
la grande tragedia che ha rappresentato per tutti noi il delitto, in
qualche modo, il sacrificio se, vuoi, rituale di questo grande poeta
della letteratura italiana, ma anche perché ci ha indicato più
strade. Pasolini ci ha indicato una molteplicità di indirizzi, non è
che scrive per il cinema, la saggistica, la poesia, la letteratura,
Pasolini è stato anche un ideologo. Una figura prettamente
novecentesca per la molteplicità di interessi che presenta, un
“maestro di morale” in un’epoca falsamente moderna come quella che
viviamo noi oggi.
Pasolini ha un atteggiamento molto critico
rispetto alla modernità, la sedicente modernità. La modernità
veramente è una trappola perché spesso noi crediamo di essere
moderni affidandoci alla pura scelta di forme un attimo diverse,
aliene da quella che è la tradizione, in realtà poi il pensiero è,
non dico antico che è una parola nobile, ma molto stantio, è molto
conservatore. Quindi questo concetto di critica della
contemporaneità è presente in Pasolini come è presente poi negli
autori filosofici che mi hanno molto influenzato. Con i francesi
ritrovi la critica della modernità in campo filosofico oltre che in
Foucault e in Derrida, in tutti i maestri del cosiddetto
decostruzionismo francese, quindi è una cosa complessa per chi si
affaccia sull’universo di Enzo Moscato perché immediatamente mi
ricollega a Eduardo, dal punto di vista drammaturgico, dal punto di
vista invece dell’impegno concettuale siamo abbastanza lontani:
anche il nostro stesso teatro, tu l’hai visto, oramai esula
dall’ambiente stretto, casalingo, domestico, oppure relativo alla
Napoli semplicemente.
In me Napoli è una metafora, in realtà il
mio sguardo è sul mondo, anche se poi uso una lingua molto forte,
molto precisa, molto locale che è quella napoletana. Però questa
lingua napoletana non me la invento io, viene da Basile, viene dal
Seicento. E quindi questo concetto di critica è presentissimo, e mi
viene dai maestri del pensiero del Novecento che ho frequentato
dalla drammaturgia, dalla filosofia, dalla poesia.
Quando parlò
della morte di Pasolini, Eduardo, disse – e lo disse anche Moravia,
tutti e due dissero quasi la stessa cosa – che perché nasca un poeta
ci vogliono secoli.
Poi vorrei dire, parliamo di Napoli e di
tutta questa non cultura che c’è in questo paese. Ma vorrei vedere a
Milano o a Torino dove forse è pure peggio dove c’è più la logica
della performance, penso che io a Milano questo discorso non l’
avrei mai fatto non mi capirebbero proprio.
Anche mia madre
difronte ai miei libri i primi tempi mi diceva lo stesso di tua
madre. Ma era anche un fatto di praticità che ti aveva insegnato la
vita, di soggezione. Poi si è ricreduta. Ma se non fossi arrivato a
camparci col teatro …
Io ritorno sempre a Fahrenheit 451.. lì si
era risolto il problema…
Ieri hanno premiato allo strega Antonio
Scurati… e sono andato a informarmi, a vedere cosa aveva fatto.
Tieni conto che una volta il Premio Strega si dava davvero a grandi
autori … lui tra le altre cose ha scritto questo libro che si chiama
M – Mussolini.
E io che sono un cultore di cose di storia,
appassionato, mi sono ricordato di una cosa di Malaparte, che è
stato un grandissimo scrittore saggista, tra l'altro io c’ho fatto
Signurì, Signurì, e ho ritrovato questo suo libro che si chiama MUS
… 60 anni fa… ora io non so… sbaglierò, ma forse qualcuno anche solo
per rimandi culturali, per disquisizione intellettuale forse si
doveva preoccupare di dire che c’era una connessione tra Scurati e
Malaparte. Oggi uno scrive La Stoia senza sapere che c’è già un
libro con quel titolo che ha scritto Elsa Morante? Magari sto
esagerando.
D - Chi ti manca molto?
R - Tanti che
purtroppo non ci sono più. Fabrizia Ramondino ci manca molto ma poi
tanti che sono stati i miei compagni di viaggio. Di tanti altri di
cui niente si sapeva e niente si sa… bhè… lì è intervenuta una
voragine e se li è mangiati tutti.
La prima cosa è mettere a
letto le illusioni. Ma questo si deve capire. Tu non ce l’hai mai
fatta nel senso più comune e riposato del termine, perché hai fatto
determinate scelte per te necessarie. Se avevi un altro carattere
facevi un'altra scelta. Io non ce l’avevo e non ce l’ho.
Altra
cosa è il talento. Io sono convinto che tanta gente l’ha avuto e non
ha mai avuto la possibilità di metterlo in mostra. Io ho avuto la
fortuna che qualche libro mi è stato pubblicato, certo non da
Einaudi o da Mondadori.
C’è gente bravissima che non è riuscita
mai e questo è il sommerso che è la nostra grande ricchezza. La
nostra grande madre terra.
D - Con la tradizione, con il
folklore ci si scontra continuamente. Tu hai fatto un Pulcinella
molto diverso. Come te la sei cavata con la cultura di ritorno che
continuamente ti si vuole appioppare addosso?
R - Come hai
capito io prendo spunto molto dalla filosofia. Gli aspetti della
realtà e della non realtà si fondono e si superano a vicenda. Non
credo nei blocchi eterni. Non lo credo per le identità, le categorie
umane e non lo credo per quelle culturali. Io credo che se qualcosa
è vivo, che sia nuovo, che sia antico, è valido perché è vivo. Per
quanto riguarda la tradizione mi sono messo a fare le cose più
disparate.
Ho fatto un disco, Embargos, dove con totale faccia
tosta, canto le canzoni più svenevoli del repertorio napoletano,
proprio perché trovo che siano vive e portatrici di valori culturali
d'epoca e umani. E’ andata tanto bene che c’ho preso gusto e
ripetuto l’esperienza e col tempo ne ho inciso altri tre.
Io non
ho mai pensato che la ricerca, ed io faccio teatro di ricerca, possa
fare a meno dell'antico come penso che l'antico non possa mai
rimanere tale o vecchio, ma debba sempre essere avvicendato come sto
provando a fare con la traduzione di questo Ubu Re, un testo che ha
ormai cent'anni, dove bisogna rispettare la lettera ma anche la
contemporaneità. Il testo inizia con "Merde" che poi era il grido di
battaglia dei futuristi, dadaisti e surrealisti. Se tu oggi irrompi
con una parola del genere, che non è più contemporanea, non fa
effetto.
D - Hai trovato un sostitutivo?
R - Ci sto
pensando e credo si possa andare anche oltre la singola parola. Si
può risolvere con un discorso di complessità, di insieme.
Non mi
spaventa la questione seppur complessa; l'importante è che i
collegamenti abbiano un passaggio tra dì loro, la possibilità di
mutarsi tra loro; del resto io non mi invento nulla, questa è la
legge della dialettica; ecco perché mi da fastidio quando pensano a
Napoli in una categoria da cartolina, perché non è cosi.
E' una
città in mutazione e in movimento come tutte le città degne di
questo nome.
D - Mi parli della mutazione genetica che hai
visto avvenire nella gente di Napoli?
R - lo credo che come
tutte le dimensioni di questo fine millennio, la città, l'universo
Napoli, o meglio ancora la categoria dello spirito Napoli, come
tutto è soggetta ad un opera di imbarbarimento, di degradazione di
involuzione; lo vedi tu stesso che quello che una volta, 25-30 anni
fa, erano forti e saldi valori, oggi sono diventati disvalori. Ciò
che prima era evidente, oggi non lo è più e questo succede dovunque.
Fui invitato all'Expo di Genova e vidi una città molte volte peggio
di Napoli, ed è una città del nord. Ma non la fai tanto pesante.
Certo una città piena di problemi.
La disoccupazione, il
traffico, la microdelinquenza. Bassolino ha fatto molto bene, e ha
fatto molto, anche per la cultura e il teatro, ha aperto a mondi
‘nuovi’ e alimentato tante speranze, voglio dire, poi si è perso.
Oggi ha ragione chi dice che Napoli non ha bisogno di una Autority.
D - Non avrei immaginato che tu potessi parlare così in termini
di politica corrente. Hai fiducia in questa giunta, credi in un
cambiamento?
R - Se io e te stiamo parlando sul serio e siamo
come siamo, napoletani; siamo la prova evidente che si può cambiare.
D - Non lo so. In tutti questi anni molti hanno sperato come noi
eppure...
R - Anch'io mi augurerei che il teatro diventasse
più potente della televisione, mi auguro che il teatro come unica
forma di creatività dell'operare umano più libero del cinema e più
pericoloso, sia "promosso" (che brutta parola). Come struttura
educativa capillare non è mai stato considerato. Ancora oggi noi
abbiamo gente che parla di teatro come forma di apprendistato
banale. Ancora con la storia che bisogna respirare la polvere del
palcoscenico.
Basta. Bisogna anche studiare, bisogna anche avere
cultura, non più parlare del teatro così come lo faceva Scarpetta o
Petito.
Se siamo d'accordo, come alcuni sono d'accordo con noi
che il teatro va rivoluzionato e rivisto in una forma pedagogica
creativa, allora in questo modo non può farci che bene. E' in questo
senso che dico che Napoli è un problema in più, ma neanche poi tanto
perché, il problema teatro è nazionale.
Noi ci dobbiamo porre il
problema di chi ci succederà. In questo momento siamo circondati da
mere nullità che vengono sdoganate e messe nei posti importanti, e
questo è gravissimo. Allora freghiamocene dei mass media,
freghiamocene della cosiddetta comunicazione ufficiale e cerchiamo
una comunicazione ‘altra’ che passa attraverso l’emozione, la mente,
l’incontro, puntiamo sull’emotività, sull’incontro fondamentale,
quello che ti cambia la vita, e c’è molto bisogno di persone come te
che si danno da fare al di là di se stessi o come me, molto
modestamente, al di là di sé, del proprio operato, dei propri testi,
che si danno da fare per questo, per una vita della cultura.
D - Un altro che diceva le tue stesse cose sul lamento era Gennaro
Vitiello, anche lui col suo Teatro Esse non è riuscito. Le sacche di
possibilità sono marginali.
R - Gennaro parlava come me di
categoria dello spirito, di un'idea Hegheliana, poi della pratica.
Gennaro è stato una persona traditissima da tutto e da tutti ed è
stata l'unica che a Napoli ha percepito l’importanza di Annibale e
di me. Non l'aveva capito nessuno. Ci ha preso e ci ha portati nel
Teatro nel Garage, il mitico Teatro nel Garage a Torre del Greco.
Un'altra cosa è poi parlare del teatro come pratica quotidiana,
perché immediatamente ti smentisce nel senso che poi il teatro, a
cominciare dalle circolari ministeriali per finire agli spiccioli
imprenditori nostrani, ti tradiscono.
Io stesso sono stato
invitato a "Caserta al borgo" per presentare Ritornanti dopo anni di
oblio e di ostilità. Magari è una piccola apertura.
D – Non
ti fa arrabbiare tutto questo?
R – Certo, mi fa fare un
fegato così, vedere gente che non deve stare nei teatri importanti.
Ma se vogliamo vincere dobbiamo occuparci delle cose in generale,
fare astrazione, come si dice in filosofia, del dato particolare.
Napoli tradisce un suo grande patrimonio, una sua grande energia,
una sua grande potenzialità, che è il teatro; ed è una forma di
stupidità.
Da Gino Rivieccio ai Fatebenefratelli, Napoli è ricca
di proposte dì teatro, se non hai la puzza sotto al naso. Poi ci
sono le cime e le cime di rapa. Però è una ricchezza della città e
purtroppo non è presa in considerazione.
lo ne parlo da studioso,
da scrittore, ma poi ci sono degli operatori culturali che
quest'anno hanno deciso di fare casino. Fare un comitato di
contrapposizione.
Non è che stiamo tutti dormendo, ma le
condizioni di deterioramento che trovi a Napoli, sono le stesse che
trovi in tutta Italia. Solo magari, Enzo Moscato è chiamato a Milano
e non qui. Magari perché Milano ha un attimo il senso di
imprenditorialità che qui manca, come non manca l'amore. Trovo il
teatro più vicino alla filosofia, più vicino alla capacità di
astrazione, di riflettere metafisicamente sulla vita, questo è il
grande pregio del teatro, l'unica zona franca che ci è rimasta oggi.
Non è mai accaduto che una cosa sia rimasta pura; accanto a delle
punte ci sono delle contaminazioni e in questo senso andrebbe
guardato il teatro.
D - Trovi che tu abbia una funzione
particolare nel teatro?
R - lo sono Leibniziano. Mi dico che
ci deve essere un senso a perché Dio e il Demonio mi fanno
rinunciare ad una cattedra in filosofia e mi fanno fare teatro. La
spiegazione è che io parlo, ed è il mio unico pregio del teatro in
chiave filosofica.
L'ho sempre tirato fuori da quelle che sono le
manfrine quotidiane dello spettacolo da mettere su. Io posso fare lo
spettacolo con le candele, perché ho in me l'idea del teatro e
tutti quelli che mi vengono a dire: - è un capolavoro - non ci
azzeccano per niente.
E' l'idea del teatro che rifulge attraverso
questo misero corpo. Non vedo idea del teatro in giro. Anche questi
ragazzi che vanno a queste scuole; non ne ho incontrato ancora uno
che fosse pervaso dal ‘fuoco sacro’. Tutti candidati all’onorevole
gestione dell'azienda teatro.
Kantor diceva: ‘Io non ho bisogno
di niente, vado in scena perché se c'è l'idea, la gente rimane ed è
colpita.’ La rivelazione di Paolo di Tarso.
O Genet che parlava
del teatro come fatto catacombale, come clandestinità, come
giuramento del sangue. Tutta altra cosa. Quando mi vengono a dire: -
tu non hai le folle - io dico: ma che me ne importa, non è questo il
punto. E poi non è vero. Qui per fare andare uno a teatro, ti devi
mettere in ginocchio.
Bisogna uscire di casa con i pericoli, con
le solitudini: pagare un biglietto che onestamente è alto e
scegliere te. Un miracolo.
Ma poi anche se ci fosse un solo
spettatore, il teatro non è la televisione, non è un
elettrodomestico. Il teatro è sulle scelte, sull'opzione. Per questo
è un fatto educativo, e per questo mi augurerei che fosse insegnato
nelle scuole.
Ed è più o meno quello che ho fatto io.
Io
insegnavo filosofia teatrale, parlare con un bambino e fargli
entrare nella zucca tutte le cose più assurde.
Ma se gliele sai
raccontare, se gli dai il mito, la favola. Il teatro può essere un
comizio.
Deve essere politico, perché tutto è politico. Però tu
devi avere questo messaggio.
Un'altra delle ragioni per cui
faccio spettacoli molto brevi è che puoi dare questa cosa per più
minuti, senno è finita, si brucia l'attimo. Io prima di cominciare
non avevo mai letto di teatro, ma sempre filosofia, linguistica,
logica.
Poi ho cominciato a leggere Genet, Grotowski, Jarry,
Artaud e quelli che hanno pensato al teatro. Perché il teatro è
pensiero.
Per portare avanti il discorso c’è bisogno di geni, il
teatro è andato avanti perché c’era Artaud che l’ha spostato avanti,
non so se mi spiego, ci sono il teatro francese e Artaud, che poi è
finito in manicomio, lì poi è una vicenda ideologica che si
intreccia anche con una vicenda personale, ma il genio quasi mai lo
si lascia esprimere, anzi il più delle volte proprio perché è di
rottura, proprio perché il genio non è consuetudine lo si
imprigiona, lo si castiga, lo si fa tacere.
D - Il tuo modo
spettacolare ricorda Grotowski, il Living e anche Barba. Ti ci
rivedi?
R - Si, io vengo dalla ricerca e il teatro di Barba e
del Living sono dei punti di riferimento importantissimi. Anche se a
volte quel tipo di cose ha generato stili e azioni senza mito.
D - Come diceva Annibale, a volte troppo muscolare.
R -
Appunto; un po' privo di emozioni. Si perde il sogno.
D - E
il sogno è necessario, ne abbiamo bisogno.
R - Eh, e ci deve
essere… adesso si sta perdendo pure quello. Una volta c’è stato, io
lo conservo ancora però secondo me così presente e così massificante
come era negli anni ‘60 e ‘70 .. persino in Mario Merola, magari non
così sofisticato come lo posso avere io che sono un ex professore di
filosofia, ma anche in Mario si sentiva e adesso lo stiamo perdendo
perché c’è l’omologazione su cui Pasolini ci è stato di grandissimo
aiuto …
D - Quando parlò dei Napoletani come di una Tribù?
R - Si. Quando diceva: ‘Napoli si è salvata, si salverà’… Bhó?
Io su questo ho i miei dubbi. Però lui l’ha fatto il sogno e lo ha
addirittura dichiarato che Napoli era diversa, e magari lo è pure ma
ora devi scavare parecchio. Prima era più evidente la diversità la
differenza. Pensa. Morto Eduardo nasce prepotentemente questo nuovo
teatro napoletano con grandi personalità; era evidente. Adesso se
c’è qualcosa devi cercare, è un po’ sotterraneo.
D - Tu che
vedi?
R - Io non vedo proprio niente. Io vedo solo arrivismo,
uso della città, utilitarismo, non vedo spontaneità. Magari nella
vecchiarella di 90 anni che parla con le commarelle ancora c’è
qualche barlume …
D - Ma tu non avverti che la tua città,
quella dei quartieri, e poi a seguire, la città teatrale, ti vuole
bene, ti riconosce anche un ruolo di voce, di guida?
R - La
città non può volerti bene tutta intera. Magari una parte. E ti
riconosce il fatto che tu hai fatto delle scelte dei sacrifici,
magari ti riconosce il fatto che tu non rompi le scatole che non
vuoi diventare il sindaco di Napoli, non vuoi diventare il
governatore; si vede che tu vuoi fare una cosa per cui sei stato
chiamato da ‘ddio’. Allora come fanno a non volerti bene se dò così
poco fastidio?
D - Infatti mi aspetterei di trovarti di più
coinvolto nei fatti di teatro. Magari con qualche incarico di
prestigio che ti spetterebbe quasi di diritto.
R - Ma no. Va
bene così. Noi facciamo i nostri spettacoli con quel poco di
pubblico che oramai ci siamo coltivati, quasi educati, avvertito,
che ti viene a vedere. Lì senti che c’è proprio la passione la
condivisione civile e quello ti deve bastare perché poi il teatro
non può cambiare tutto, tu puoi fare il teatro più bello in città e
anche il più moderno ma se non è accompagnato da tante cose in
parallelo …
Se tu istituzione sei per la superficialità sei per
l’effimero pure il teatro fa la stessa fine.
Ma chiudiamo questo
capitolo con un Enzo Moscato poco pacificato che qualcuno può
scambiare per invidia. Io non invidio nessuno ho avuto un grande
dono dal padreterno che è quello della scrittura… basta … potrebbe
stare meglio la città potremmo stare meglio tutti, potrebbe stare
meglio il teatro, potremmo fare selezioni migliori…..
D - Con
chi ce l’hai in particolare?
R - Non lo dirò nemmeno sotto
tortura. No. Non ce l’ho con nessuno, tanto meno a morte. Ce l’ho
contro un modo di fare di intendere, personificato. Ma la speranza
ce l’ho, del resto si vede faccio spettacoli con dei bambini, li
tiro sempre dentro. I bambini a contatto con questo rigore, con
questo gioco del teatro possono coltivare questa coscienza, magari
la stessa coscienza che è capitata a me … il libro e, più ancora dei
libri di oggi, i libri del passato quelli che ci hanno fatto grandi
e che sono scomparsi dalla circolazione.
Tu vai dentro una
libreria e trovi pubblicata gente che non sai da dove viene da dove
proviene e non trovi più un libro di Manzoni, di Dante Alighieri.
Trovi un nome innominabile che magari si è fatto 50 case di
proprietà a Posillipo e non ti dice niente eppure ‘sta llà’… e non
ti trovi la Ortese non ti trovi, Bernari, la Morante, Moravia,
Patroni Griffi, questo è grave perché tu prima avevi una generazione
che a me mi ha arricchito che mi ha fatto grande, nel senso degli
interessi, nel senso di una persona aperta alla lettura, al sapere,
alla conoscenza; questa è la cosa grave non è un problema di Enzo
Moscato che lo rappresenti o lo rappresenti sezionalmente… fai un
torto alla cultura e un torto alla città.
Ho fatto tanti
laboratori sulla scrittura, sui libri. Ho fatto laboratori e
seminari con l’università, con Antonia Lezza, su grandi autori di
teatro di letteratura e poesia… non si è mai saputo nulla, sono come
scomparsi, fantasmi. Di questo la gente non sa nulla; i giovani non
sanno nulla e io lo trovo gravissimo.
Sto rifiutando di fare
seminari sul teatro perché il teatro è un’arte alchemica misteriosa
… il teatro lo devi fare è inutile che te lo vai a imparare
attraverso l’insegnamento, lo devi fare, devi essere. Il laboratorio
teatrale viene dopo che ci siamo chiariti su cosa è teatro, sennò
moltiplichiamo l’equivoco. Ma questo è un altro capitolo.
D - La
tua scoperta dei libri della tua vita?
R - Li scoprii da
ragazzino, qua alla galleria Toledo, i primi libri che mi presero,
quelli delle sorelle Bronte di cui avevo visto in televisione Cime
Tempestose e io ricordo che presi il libro per vedere se era la
stessa storia che avevo visto in tv. Poi li presi anche per
l’esperienza pregressa che era il cinema e lì vidi quel grandissimo
film di De Sica che era l’Oro di Napoli e lì trovai il romanzo, il
libro di Marotta e dissi “adesso me lo leggo” e lì scoprii un
grandissimo autore, poi falsificato come un autore napoletano di
quartiere e non è vero perché Marotta è un grandissimo scrittore.
Il libro è stato una sorta di contaminazione, di infezione positiva
che mi ha portato a leggere. Io ancora oggi se posso, occhi
permettendo, la massima parte del mio tempo lo passo leggendo e un
quarto soltanto faccio lavoro teatrale.
Come si fa a capire la
vita se invece di leggerti Fahrenheit 451 leggi il libro di uno
qualunque?
D – E un libro ha sancito l'incontro con i
‘giovani’ dei Teatri Uniti. Toni Servillo mi raccontava del vostro
incontro in uno chalet per la litoranea e del pezzo omonimo che hai
scritto per lui
R - Una volta per tutte questa cosa la devo
chiarire.
Sia quando ho scritto Partitura, che quando ho scritto
Litoranea non ho scritto per qualcuno. Diciamo che la scrittura, la
visione passa attraverso me. Io non sono responsabile di quello che
scrivo o almeno solo in parte. Partitura non l'ho scritta neanche
per me. L'approdo, la destinazione per quanto riguarda la scrittura
non c'è mai. Questa è una favola che pensa ogni tanto l'attore, per
consolazione.
Anche lsa Danieli è convinta che certe cose le
abbia scritte solo per lei. Ed è convinta che Annibale abbia fatto
la stessa cosa.
Ma poi una persona intelligente sa che quando sei
attraversato miracolosamente da una visione quel testo non è di
nessuno. Posso dire questo; che Toni, sia per Partitura sia per
Litoranea ha fatto da reagente. Un giorno mi ha chiamato e mi ha
detto che stava pensando ad un testo scritto da me. E, parlando
parlando, è venuto fuori il nostro interesse comune per la poesia e
il verso di Leopardi questa nostra ignuda natura.
Da lì siamo
partiti; lui pensava ad un Leopardi tipo Eduardo, e invece è venuto
fuori quello che sai, dove c'entrava poco Leopardi e molto i fatti
miei, e il corpo reagente stava lì.
Litoranea invece è nata
perché volevano pubblicare un libro di poesie. ( Il libro che è
stato l’occasione di incontro con Teatri Uniti come dicevi tu.) Mi
chiesero di usare alcuni brani da Partitura e io dissi che era
possibile che scrivessi qualcosa di originale, e siccome sono stato
sempre attraversato, ispirato dal mare, ho scritto Litoranea, che ha
come sottotitolo, Anamnesi Marine.
Poi gli attori se ne
impadroniscono, ma in realtà la scrittura non rispetta neanche te.
Un testo per molti irrappresentabile, difficile, pazzesco, contorto
e tortuoso.
Quando scrissi Cartesiana, Annibale mi disse che ero
impazzito, che quella cosa non si poteva assolutamente mettere in
scena. Poi gli feci vedere se era possibile o no. E manco a dirlo si
fece un mondo di risate.
Lì bastava solo fare una specie di
prontuario ritmico.
D - Che ruolo gioca la femminilità a
teatro e in particolare nel teatro napoletano?
R - Lo dico a
mio modo senza mettere punti definitivi in occasione dello
spettacolo Patria puttana all'Arena del Sole di Bologna Teatri. Nel
mio universo espressivo, le puttane – le cosiddette ‘donne di
piacere’– sono forse le figure più emblematiche e centrali.
Dalla
Signora di Pièce noire all’Assunta di Bordello di mare con città,
dalle ‘omologate nel mestiere’ Lulù 1, Lulù 2, Lulù 3 di Trianòn
alla stessa Luparella o a Bolero Film e Grand Hotel di Ragazze sole
con qualche esperienza, le puttane hanno rappresentato tutte un
punto fermo e privilegiato nel dare voce e corpo al concetto/prassi
di una scena tesa a smascherare – con malinconia ma anche con tanta
ilarità – la presunta insufficienza e marginalità di ciò che viene
detto ‘il femminile’.
Soprattutto quello ferito, venduto,
comprato, mercificato, ingannato e mistificato da una storia gestita
da millenni, in assoluto, dal maschile.
Patria Puttana è una
piccola ma significativa silloge di questa inclinazione. Un
rapsodico ma profondo omaggio a quella sorta di casa, territorio,
comune luogo di giacenza e resistenza che ritengo di dividere e
con-dividere con la Donna e con la Prostituta, intesa come ‘cantore
della differenza’.
Nel teatro occidentale gli archetipi maschile
/ femminile sono predominanti. Altra cosa sono i teatri orientali…
nella seconda metà del novecento è venuto fuori il neutro: maschile
o femminile, o né maschile né femminile, o ancora et-et In Italia
abbiamo avuto dei grandissimi… Paolo Poli per esempio… a Napoli
almeno nei primi tempi la Gatta Cenerentola con De Simone, non so
con quanta consapevolezza, però molto interessante…. delle icone.
Io da ragazzo ho avuto la possibilità di vedere il grande Lindsay
Kemp … l’immagine archetipale della fusione dei sessi… ma è triste
relegare l’espressività dentro un genere. Sara Bernard sognava di
uscire dalle caselle assegnate dei ruoli maschili e femminili,
sognava la fusione dei contrari.
Un Re Lear al femminile per me
non sarebbe uno scandalo.
Meglio fare un discorso filosofico
sull’alterità, sulla molteplicità, che la semplice registrazione del
dato, che non fa bene a nessuno. Per fortuna il teatro era e
potrebbe essere ancora un'altra cosa. Auguriamoci che non muoia
Come potrebbe sennò sopravvivere, la maggior parte dei teatri senza
sovvenzioni senza niente, pochi, la lirica per esempio con un
mucchio di soldi per reiterare all’infinito lo stesso spettacolo
cambiando gli attori, il regista, la messa in scena, per un evento
che non serve a niente se non a far sopravvivere la tradizione e a
dar da mangiare a chi lo fa.
Abbiamo bisogno di missionari; come
ne ha bisogno la chiesa così ne ha bisogno i teatro. Finché ci
saranno i missionari posseduti da una forma di Vocatio, una
interpellanza divina e demoniaca andremo avanti…. Il teatro è un
fatto sacerdotale in cui sono più le croci che devi portare che le
soddisfazioni. Fatta così è una professione che non mi sentirei di
consigliare a nessuno ammenoché qualcuno non si senta dentro una
grossa quantità di masochismo, e allora…
E in più c’è l’oblìo
progressivo… come per i grandi citati poco fa, anche questo mio
lavoro fatto in 40 anni chissà chi lo ricorderà domani.
Uno deve
fare ciò che è. Siamo sempre sull’essere. Ciò che è chiamato a fare,
della propria impronta. L’augurio è che ci siano sempre più giovani
a donare la vita per questa cosa bellissima che è il teatro, che ha
un pubblico vivo davanti che ti può picchiare, fischiare, uccidere.
Altro che virtualità… Ricordate Neshville.
È le danger, il
pericolo, il rischio; rischio in tutti i sensi, anche fisico. E’
come una partita di pallone, si può avere una invasione di campo e
si passa dal gioco alla carneficina. Che fai? Fai recitare gli
attori dietro una teca di vetro? E comunque questo succederebbe solo
se tu facessi una provocazione molto forte che non ha niente a che
vedere col pruriginoso, con lo scandalistico, con la provocazione
ontologica, con la ferita profonda. Il teatro può essere anche molto
pudico e vestito, e essere eversivo.
D - Tu sapevi che,
almeno per la storia, tu e i Teatri Uniti eravate l'uno opposto
dell'altro. Com’è stato possibile conciliarvi?
R - Tutto
parte dall'intelligenza delle persone. Mi ricordo che quando feci
Scannasurice,
i primi tempi che mi esibivo a teatro, ebbi
occasione di conoscere Martone. Fummo entrambi invitati ad una
trasmissione televisiva.
Lui allora faceva Tango Glaciale io
sapevo cosa faceva lui, lui cosa facevo io. Operavamo su fronti
totalmente opposti. Aiutata dalla critica questa spaccatura, perché
c'era chi parteggiava per l'uno o per l'altro, tipo Guelfi e
Ghibellini. Le persone intelligenti alla fine badano alla sostanza
delle cose.
Ci fummo subito molto simpatici, di una simpatia
fisica e di primo acchito. Ogni qualvolta ci incontravamo, parlavamo
dei nostri progetti e ci riproponevamo di fare delle cose assieme.
Poi il tempo ha fatto il resto. Il tempo, devo dire, aiutato e
gestito da A. Neiwiller. Dal momento che Antonio è entrato nei
Teatri Uniti ha portato al suo interno un modo e una impronta di
fare teatro che a parte qualche sito era uguale alla mia.
Antonio
era un asceta del teatro, un mistico del teatro, una persona
straordinaria. Un altro incontro della mia vita voluto da Dio e,
chissà perché, ripreso da Dio.
Mario mi disse di avere un testo
per le mani che era l' Orfeo di Cocteau. Mi ci vedeva e cominciammo
a parlare sul progetto. Poi la cosa non andò, e dopo quella ci
furono altre occasioni mancate. Ci chiesero di gestire insieme la
‘Notte di Ercolano’, duemila anni dall'eruzione. Neanche in quella
occasione se ne fece niente.
Ogni volta che Mario tornava a
Napoli, mi chiamava e andavamo a prendere un caffè assieme, e un
giorno mi disse che gli avevano offerto l'occasione di presentare
uno spettacolo al teatro Valle di Roma.
lo avevo già dei
frammenti pronti che erano già pubblicati a cura di Oreste Zerola in
un opuscoletto con dei suoi disegni e messo dentro un astuccio tanto
che anziché un libro sembrava un rasoio. E così nacque Rasoi
D - Vi siete accorti subito che stavate per dare vita ad un evento?
R - Questo lo hanno detto i critici, poi, e tu adesso. Certo sin
dalle prove ci rendemmo conto che questa fusione di due tronconi
della ricerca, fino a quel momento separati, stava dando un frutto
maturo.
D - Perché ti hanno messo proprio davanti al sipario?
R - Innanzitutto davanti al sipario ero il poeta/cantore che già
avevamo costruito per l'Orfeo nell'87. Poi Mario vedeva in me quello
che ne è uscito, una creatura un poco strana, giusta per quello che
ci serviva. Le parole che dico all'inizio e alla fine sono di
Cocteau.
D - L'idea di quel sipario di chi è? Io l'ho trovata
straordinaria nel suo significato.
R - E' di Mario, ma io ho
trovato bella tutta l'idea registica. Poi l'apporto di Toni nella
costruzione di alcuni monologhi è stato determinante. Rasoi ormai è
letteratura.
Con esso abbiamo girato mezza Europa e molto di più.
Poi con Toni avevamo in mente di fare il Macbeth, non se ne fece
nulla, peccato. Con Mario ho girato un film tratto da Spiritilli,
poi ho fatto per Santarcangelo Mald'Hamlè… tante altre cose…così…
D - Qualche anno fa tu, De Rosa, Martone, Carpentieri, foste
chiamati alla direzione artistica del teatro Mercadante. Poi più
nulla. Di quella esperienza cosa conservi.
R - Fummo chiamati ad
una gestione pluralistica. Ora si è sempre più dogmatici. Tu hai
fatto delle battaglie delle lotte perché la cosa pubblica fosse
trasparente e plurale e invece vedi che si è andato sempre più verso
la monopolizzazione delle cose e quindi non si vede più quella linea
che avevamo provato a tracciare. Quello è stato l’ultimo barlume di
un comitato artistico .
D - Con chi sei rimasto in contatto
VERO?
R - L'altro giorno ho presentato il libro di Mario
Martone e con molto piacere abbiamo fatto la Carmen insieme. Con
altri meno. Con qualche attore…
D - Tu sei stato molto amico
di un altro grande che abbiamo citato prima, anche lui molto tradito
e che se ne andato troppo presto.
R - Antonio Neiwiller?
D - Esatto
R – Quello è un altro discorso. Io sono ancora
vivente sono un essere indipendente, godo della mia liberta. Antonio
è stato ucciso e tradito indipendentemente dalla sua malattia.
Io
sono fortunato da questo punto di vista perché ho saputo tutelarmi,
io se scrivo ancora e scrivo nella maniera in cui scrivo è perché mi
sono saputo tutelare, mi sono messo in una dimensione di
inarrivabilità rispetto al potere e questo mi ha salvato; certamente
non vivo come un nababbo, non tengo le ville a Positano, non faccio
gli eventi che mi fanno diventare milionario …
Quello che mi
addolora è che tutto questo “desiderio di nuovo” che c’era stato
negli anni ‘80 di cui lui era un precursore e grande interprete è
scomparso. Ma è un grande abbaglio. Del resto, io sono convinto che
il teatro morirà, se non è già morto, perché è scavalcato da una
dimensione folle di altro genere; è un grande problema anche dal
punto di vista pedagogico perché quando arrivano i giovani attori
che cosa vai a raccontare loro? La solita palla che avranno
successo?
Oppure li metti davanti alla nuda realtà: questa è la
situazione e dunque bisogna diventare resistenti, fare una guerra
civile a quel che sta succedendo. Come quando l’Italia si trovava ad
affrontare i nazisti in casa propria e anche il più pacifico dei
cittadini dovette diventare partigiano. Io ho un’idea molto
partigiana dl teatro. Per me il teatro è una cosa seria, che va al
di là dell’elemento recitativo.
Il teatro è un grande viaggio
pieno di contraddizioni, di polarità, che dunque ti permette di
mutare e di rimanere identici allo stesso tempo. Io ho fatto anche
cose tanto diverse, se consideri anche la prima parte della mia
drammaturgia, molto più vicina alla corrente del tempo, poi invece
mi sono allontanato, concentrandomi su alcuni poeti, su delle
personalità geniali della cultura in generale.
Il teatro è un
arte sacrificante. Però per me scrivere è stata la ragione di vita,
la salvezza di me stesso, scrivo indipendentemente dal fatto che
quel testo possa essere pubblicato o messo in scena, io scrivo per
stare meglio. Poi se posso condividere con altri è meglio. Mi
arrabbio quando vedo che gli altri non concepiscono la scrittura
come un atto di cultura; io continuo ancora a leggere moltissimo, tu
diventi scrittore quando cominci ad ammirare e a conoscere altri
grandi scrittori come Jack London, Musil, Hawthorne, anche i grandi
scrittori italiani, napoletani, Carlo Bernari, lo stesso Patroni
Griffi. Quando mi trovo con i ragazzi li invito sempre a leggere i
grandi, Gogol, Tolstoj, e solo poi anche i nuovi scrittori. Tutti
scrivono ma quanti hanno consapevolezza di ciò che fanno? La prima
cosa che chiedo sempre a chi comincia ora a scrivere o a fare
l’attore è: “sei pronto a sacrificarti? Senno fai un'altra cosa”.
Io ho una concezione che sfocia nel rigore, questo si, mi
avvicina a Eduardo. Dal punto di vista della lezione etica c’è un
atteggiamento molto morale rispetto alla fruizione del teatro che mi
fa guardare ad Eduardo sotto un’altra luce, una lezione severa, la
sua, mette quasi in campo una serie di divieti per accedere al
teatro, a cominciare dalla formazione dell’attore che era
straordinaria, che era molto drastica, molto dura.
Non è che si
può fare teatro come lo fanno in moltissimi che è un fare la
zazzuela, quello è uno stare in mezzo, magari anche pieno di
inconsapevolezza, ma è uno starci in modo impiegatizio.
Tutti
gli attori che hanno lavorato con Eduardo questo ci dicono. Adesso
tu vedi che invece a teatro è sufficiente fare due gradini e tutti
salgono sul palco. Anche le scuole di recitazione, le accademie, gli
istituti, cambiano se ci sono le persone giuste che le fanno
cambiare all’interno, ma se tu hai una serie di burocrati che
meccanicamente ripetono quello che hanno appreso, allora il discorso
resta lì. C’è bisogno di una formazione e poi di una trasformazione,
insegnare in un altro modo potrebbe avere un suo valore. Invece oggi
che succede? Il primo anno nelle accademie ti fanno fare delle
cosettine, impostazione della voce, un po’ di lavoro sulla
pronuncia, e poi l’anno dopo i ragazzi vanno a fare i provini per il
cinema o la televisione perché si sono già stufati di una cosa
noiosa e così arida che è il teatro. C’è poco da fare: tu il teatro
lo devi fare in assoluto.
C’è più Artaud in una vasciaiola che in
molti di questi che occupano i teatri pubblici.
Invece il teatro
è un’esplorazione continua, perché che cosa ti chiede il teatro? Il
teatro
ti chiede di cambiare sempre vita, di commutare
continuamente la tua vita, il teatro ti chiede una schizofrenia
continua.
Se tu consideri chi sono adesso in Italia i direttori
dei teatri, tu vedi tutti burocrati che ‘pazzeano’ col teatro, tutta
gente che, o non ha niente a che fare con il teatro, oppure hanno
con la cosa teatro un rapporto anomalo, malato, non sono creature di
teatro.
Noi facciamo un lavoro peregrino sacrificato rigoroso
loro fanno un lavoro protetto. E per quanto riguarda le direzioni
artistiche ci troviamo davanti a dei funzionari.
D - Senti.
Mi dici di questa Spoon river napoletana, che ho letto è stata a
lungo nei suoi pensieri prima di portarla in scena?
R - Avevo
iniziato a pensare a quello che poi è diventato Raccogliere e
bruciare già nel ’95. Avevo iniziato a lavorarci sopra ma poi
arrivarono altri progetti e lo misi di canto. L’anno scorso, prima
di queste repliche al Teatro Bellini, siamo riusciti a presentarlo
al Napoli Teatro Festival, ma con tutte le difficoltà che comporta
avere 22 attori sempre in scena difficilmente la potrò rappresentare
ancora. Però ho voluto tanto farlo perché concepisco il teatro come
una sorta di rito comunitario, una mensa a cui tutti devono sedersi,
bere, mangiare. E difatti in questo caso si sono seduti a fianco a
me attori con cui lavoro da più di trent’anni come Benedetto
Casillo, Cristina Donadio, Vincenza Modica, poi elementi nuovi che
approdano per la prima volta nel mio universo e infine i bambini, le
future leve, sperando di poterli guardare…
D - E i tuoi
amici?
R - I miei amici sono soprattutto i libri, poi i miei
nipoti, che sono miei amici veramente con cui gioco, ci sfottiamo.
Giuseppe il figlio di Claudio (Affinito, manager della Compagnia
Enzo Moscato, ndr.) che sono stati un po’ la somatizzazione della
nostra compagnia. Ora sono impegnati anche in altre cose fuori da
noi, ma è normale che sia così, oggi è difficile. Quando noi due
abbiamo fatto questa scelta di campo dedicandoci esclusivamente alla
compagnia lasciando i nostri rispettivi lavori, allora si poteva
fare, abbiamo campato, sopravvissuto. Oggi non sarei così sicuro che
si potrebbe fare.
Poi c'è il teatro; certe volte lo amo, alcune
lo odio, ma comunque è una grande consolazione, perché in una vita
come questa, dove ci si può dire più liberi, in una vita che ti
permette poco di dire come la pensi, come puoi esprimerti, il teatro
è il luogo di un urlo.
Ma tu pensi che sia tanto lontano quello
che succede nella nostra realtà di oggi da quello che succede nel
teatro adesso? Vedi che le cose sono collegate. Anche noi non
veniamo salvati dalla marea dell’opportunismo, del politicume,
dell’affarismo, e sicuramente dalla morte della cultura da parte
dello spettatore. Questo è poco ma sicuro. Non ci resta che fare gli
eroi, ma sicuramente c’è anche l’istinto di autoconservazione, ogni
tanto, ti devi pure salvare. Per me, essermi incontrato con il
teatro è stata una fortuna, perché mi ha salvato da tanti disastri,
psicologici, emotivi che ho potuto evitare, perché il teatro è un
grande sanatorio, di personalità potenzialmente borderline, anche se
come artista mi ritengo un po’ frustrato perché tante potenzialità
ti vengono tarpate dall’istituzione.
Il senso di insofferenza che
ho verso il teatro è per il rito mondano che non mi piace proprio.
Per me è importante il luogo, dove dico delle cose, e credo che gli
spettatori abbiamo cominciato a capire.
Da un po' di tempo ho una
strana sensazione che quando entro in scena, mi si aspetta, perché è
il momento che anche l'altro deve dire insieme a te. Ma devi sempre
combattere con il territorio, perché nonostante tutto e nonostante
gli anni facciamo sempre fatica a fare alcuni testi considerati più
difficili, violenti, nello spirito più che nella sostanza. Le
motivazioni sono sempre le stesse, che la piazza non è preparata e
non percepirebbe, ecc.
D - Ma come, chiamano te e vogliono
uno spettacolo morbido? E' il discorso che facevamo prima sulle
arrabbiature.
R - Infatti. E mi è capitato spesso. Una volta
a Caserta non vollero Mald'Hamlè. Se pensi che poi il giorno dopo ci
sarebbe stato Carmelo Bene con i Canti di Giacomo Leopardi mi sono
arrabbiato due volte. Allora un po' triste feci questa Cartesiana
che cresceva mano a mano che mi calmavo dall'arrabbiatura, che sono
certo la gente ha respirato con me e alla fine non ce la faceva più
dalle risate a crepapelle. Ho l'impressione che ormai la gente
sappia quando tu entri in scena che è anche il loro momento di
entrare in scena; e questa è una grande consolazione.
D – Fa
molta rabbia. Ti devi vestire di un buon senso adulto e dissimulare
i fermenti giovanili che ribollono dentro. Da giovani incendiari da
grandi pompieri?
R – Non direi proprio cosi. Tant’è che noi
siamo stati sempre liberi di fare ciò che volevamo. Solo che oggi ci
sono dei ricatti molto più forti. Infatti io ai giovai della mia
compagnia ho consigliato di guardare prima alla carriera scolastica
di laurearsi guardarsi attorno crearsi delle alternative dei piani B
e poi il teatro. Giuseppe che sta a Parigi… bhè… lì è tutta un’altra
cosa. Lì chi ha maturato 100 giornate lavorative è come una sorta di
reddito di cittadinanza mentre qua hai voglia di girare con il
curriculum per provini … devi stare con la mano tesa a chiedere come
in chiesa.
D - Non mi piacerebbe però che il tuo teatro
diventasse consolatorio.
R - Sai, ormai Cartesiana è
letteratura. Mi giunge notizia che alcuni la recitano alle feste, ai
compleanni. Il problema è farla uscire dalla letteratura, farla
diventare ancora una volta palpito recitante, vita.
C'è l'ho
messa tutta e credo di esserci riuscito, sono sicuro che sul nuovo
io do sempre bastonate, sul vecchio ci si consola; d'altronde
anch'io ho bisogno di essere consolato.
Per il resto negli ultimi
tempi la vita ristagna un po’, il teatro brucia. E come se tu auto
collocandoti o comunque essendo collocato in una zona
dell'immaginario, lontano da te, è come se la gente avesse delle
difficoltà a stabilire rapporti reali con te.
Ma per qualsiasi
cosa, anche per un caffè, per una passeggiata. Tutto diventa
difficile. Molte persone credono che io sia distante, sprucido.
lo sono solo una persona che si deve proteggere.
Napoli 5 luglio 2019
Nicolantonio NAPOLI
Tesi
di laurea in
LETTERATURA TEATRALE ITALIANA
Relatrice
Prof.ssa Giuseppina SCOGNAMIGLIO
Correlatore
Prof. Francesco
COTTICELLI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II